Iniziativa Laica I laici tendono a difendersi, e' ora di attaccare !

27giu/17Off

Sulle elezioni

Due articoli di Guido Crainz e Stefano Folli (Repubblica 27.6.17) LEGGI DI SEGUITO

"Chi ha sottovalutato il no al referendum" di Guido Crainz

""C’è qualcosa di radicale nel voto di domenica e va persino oltre il crollo del Pd e dell’intera sinistra, battuta sia quando si è presentata unita sia quando si è divisa. Va oltre la sua sconfitta in roccaforti storiche, oltre la sua scomparsa ormai quasi generale al Nord, oltre la sua incapacità di attrarre al secondo turno elettori di altri schieramenti. Eccezioni certo vi sono state ma non autorizzano nessuna minimizzazione, e il carattere “locale” del voto rende semmai ancor più grave la sconfitta. Radica nelle diverse zone del Paese il “responso generale” del referendum costituzionale del 4 dicembre, ed è stato irresponsabile non aver avviato una riflessione seria su di esso: sulla sconfitta del Sì e sulle differenti e talora disomogenee ragioni confluite nel trionfo del No. Eppure — è difficile negarlo — la bocciatura della proposta di riforma non ha riguardato solo il merito di essa: ha reso evidente anche una drastica presa di distanza dalla ottimistica e astratta “narrazione” renziana, incapace di misurarsi con gli scenari reali che gli italiani hanno vissuto e vivono. Con gli effetti strutturali e i lunghi strascichi di una crisi economica internazionale che ha mutato l’idea di “sviluppo possibile”: la sua qualità, il suo profilo, il suo spessore. Ha influito, in altri termini, sull’idea stessa di futuro. È confluita inoltre in quel voto anche la dilagante sfiducia nel ceto politico attuale, con una diffidenza verso le sue proposte di cambiamento che diventa naturalmente massima quando esse riguardano l’ordinamento istituzionale. E che non è sempre intrisa di limpidi valori costituzionali e di sinistra ma può tingersi anche di umori molto differenti, come lo stesso voto di domenica indirettamente conferma. Viene anche da qui la realtà di oggi: con un centrodestra vero vincitore — dopo molti anni —, un Movimento 5 Stelle sconfitto sì ma non defunto e un centrosinistra da rifondare radicalmente, in uno scenario reso ancor più grave dall’ulteriore calo della partecipazione al voto. Questo è il secondo nodo su cui riflettere, in un Paese che ancora negli anni di Tangentopoli, pur nel crollo della Prima Repubblica, registrava più dell’85% dei votanti (con percentuali di poco inferiori nelle elezioni amministrative). L’illusionismo e il populismo berlusconiano e leghista sembrarono colmare il vuoto lasciato da quel crollo: o meglio, inserirono in esso una “antipolitica della politica” che minava progressivamente le basi stesse della democrazia. E poterono profittare dell’incapacità della sinistra di rifondare realmente l’agire pubblico: si persero infatti per via le potenzialità pur emerse grazie all’elezione diretta dei sindaci, all’ispirazione stessa dell’Ulivo e all’esperienza delle primarie, capaci inizialmente di imporre una idea vincente di sinistra anche a leader refrattari. Nel 2005 fu una lezione per tutti (ancorché poco ascoltata) il plebiscito che incoronò Prodi come leader della coalizione: un leader che sapeva unire, scelto per questo. Non è casuale che umori più espliciti di antipolitica inizino a diffondersi proprio nel logorarsi di quella speranza, quotidianamente umiliata dalle divisioni e dalle lacerazioni del centrosinistra al governo: è infatti del 2007 il primo irrompere di Beppe Grillo con il V-day (ed è dello stesso anno lo straordinario successo di un libro-denuncia, inascoltato anch’esso dalla politica, come La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella). Un secondo segnale venne dalle elezioni regionali del 2010, con il crollo della partecipazione al voto al 60% o poco più: ed era appunto di quell’anno il primo appannarsi della egemonia berlusconiana, solo in parte occultato dal contemporaneo riemergere della Lega. Sono venuti poi un più generale tracollo del centrodestra e il definitivo dilagare dell’antipolitica, cui fece per un attimo da contrappeso l’iniziale fiducia nel “governo dei tecnici” di Mario Monti. Nel precoce affondare di quell’esperienza — oltre che nell’emergere di nuovi e devastanti scandali — l’ondata grillina e l’astensione esplosero insieme, a partire dalla Sicilia. E nelle elezioni del 2013 il Movimento 5 Stelle affiancò sul proscenio il centrodestra berlusconiano (da cui fuggirono oltre sei milioni di elettori) e il Pd di Bersani (capace di perderne a sua volta oltre tre milioni). Si affermò in quello scenario una leadership di Matteo Renzi che è giunta ormai al termine: e la sua principale responsabilità sta proprio nel non aver saputo invertire la rotta, come pure le elezioni europee del 2014 avevano fatto sperare. Nel non aver mantenuto quell’impegno a rinnovare la politica e il Pd che era stato alla base del suo affermarsi. Nell’aver lasciato ulteriormente degradare la realtà di un partito sempre più asfittico e rinchiuso nelle proprie divisioni e lacerazioni, deflagrate dopo il 4 dicembre. Un partito che in realtà ha perso queste elezioni amministrative e quelle immediatamente precedenti prima ancora del loro svolgersi, per l’incapacità di candidare alla guida di città e Regioni una classe dirigente capace e credibile.
È radicale ed inequivocabile dunque il messaggio del voto di domenica, ed è radicale il ripensamento che impone. Riguarda tutto il centrosinistra, sconfitto nel suo insieme: ed è difficile immaginare che esso possa avere ancora un futuro se i protagonisti della stagione più recente non sono capaci di fare un passo indietro, o almeno di lato.""

"Pd, Renzi è sotto attacco. E ora dimenticare Palazzo Chigi" di Stefano Folli. "Il segretario: niente aperture a sinistra. Veltroni: “Matteo cambi passo, il partito non guarda ai deboli”

Come in un infinito psicodramma, nel Pd si cercano risposte senza avere il coraggio di porre le domande. È stata o no una grave sconfitta, quella di domenica? A sentire Renzi le cose non sono andate poi così male. Il segretario lascia intendere che si è trattato quasi di un pareggio, peraltro condizionato dalle astensioni. E in ogni caso le elezioni politiche saranno un’altra storia. La tesi è consolatoria, fondata sullo schema dell’”incidente di percorso” presto rimediabile. Argomento che regge solo se il vertice del partito non obietta e non batte i pugni sul tavolo, almeno in pubblico. E infatti la maggioranza tace e acconsente. Per ora. O per convenienza o per mancanza di coraggio e di idee, nessuno ha voglia di aprire un confronto interno lacerante. Per molto meno uno dei personaggi che piacciono a Renzi, Amintore Fanfani, fu estromesso dalla segreteria della Dc dopo aver perso il referendum sul divorzio nel ‘74. Ma erano altri tempi. L’unico che prova a reagire è Orlando, ma viene zittito: anche lui è stato sconfitto, anzi il progetto del centrosinistra allargato non ha funzionato a Genova e altrove. Quindi, cosa vuole Orlando? E cosa vogliono Pisapia, i bersaniani scissionisti, tutti coloro che amerebbero sedersi intorno a un tavolo per una seduta di psicanalisi collettiva?
Non c’è da perdere tempo, sottintende il segretario. Non c’è nulla da concedere alla sinistra interna ed esterna al Pd. Anzi, loro sono i responsabili dell’infortunio. Loro sono i sabotatori. Come si capisce, se questa è l’analisi, non c’è da attendersi una risposta convincente, in grado di cogliere la drammaticità del momento. Renzi segue il suo temperamento e mai concepisce di mettersi in discussione. Vede trappole e complotti dietro ogni angolo e la sua unica strategia è la marcia avanti. Se le comunali sono andate come si è visto, Renzi punta più di prima su se stesso, l’unico di cui si fida. E infatti la frase «le politiche sono un’altra storia» vuol dire, né più né meno, che in quella circostanza si alzerà il livello della contesa e in campo ci sarà lui, il segretario-ex premier. Da solo cancellerà le contraddizioni e i punti deboli del messaggio politico e il Pd rifiorirà.
Qui è la vera discriminante. Renzi ignora o finge di ignorare che molti ormai lo considerano il problema e non la soluzione alla crisi del Pd. Il giovane estroverso e dinamico che sedusse gli italiani nella primavera del 2014 si è appannato fino a svanire nel cortocircuito dei suoi errori. Ha dovuto confrontarsi con ostacoli giganteschi e con possenti spinte conservatrici, senza dubbio. Ma è altrettanto vero che nessuno come lui, negli ultimi trenta-quarant’anni, ha avuto tante opportunità e non ha saputo sfruttarle. Oggi cosa resta? L’ex premier sembra dominato dalla volontà di tornare a tutti i costi a Palazzo Chigi, così come prima del 4 dicembre era ossessionato dal desiderio di ottenere un plebiscito personale.
Ecco allora lo scollamento rispetto alla realtà. Dal leader di un partito di centrosinistra ci si attende una visione in grado di abbracciare le ansie e le inquietudini di una vasta area di popolazione disorientata, forse anche una particolare empatia umana. Non l’implacabile e solitario perseguimento di un disegno di potere in stile House of cards. Tutto questo ha contribuito a creare una frattura fra Renzi e il suo elettorato. Il grande comunicatore, l’uomo capace di accendere la speranza, oggi ha deluso parte del suo mondo. E quindi, certo, le elezioni generali sono un’altra storia, ma forse non nel senso che Renzi immagina.
C’è chi gli chiede di ricostruire il centrosinistra federando la sinistra più radicale di Pisapia e un pezzo del centro modernizzante (Calenda, ad esempio). Ma occorre fantasia e tenacia per operare una sintesi che non significa incollare insieme i tasselli del vecchio ceto politico. Invece il Renzi di oggi è più che mai sospettoso, in particolare verso le iniziative di Romano Prodi. Quanto a Gentiloni, è sempre a un passo dal diventare un nemico. Quando invece l’ipotesi che resti a Palazzo Chigi anche dopo il voto, con il suo profilo rassicurante, dovrebbe essere colta da Renzi come l’occasione per lavorare con le mani libere e senza secondi fini al vero progetto: riconquistare il cuore degli elettori.""

Commenti (0) Trackback (0)

Spiacenti, il modulo dei commenti è chiuso per ora.

I trackback sono disattivati.