Abbiamo perso 44 anni. Quanti ne devono passare ancora prima di reagire?
Da HuffPost 8.8.19 post di Greenpeace Italia, Organizzazione internazionale no profit
“”Ci sono cose che capitano all’improvviso. Ti sorprendono e non capisci. Ma, decisamente, il cambiamento climatico non fa parte di questa categoria. È tutto (terribile, minaccioso, ingiusto) tranne che improvviso, inatteso. L’otto di agosto del 1975, il compianto Wallace (Wally) Broecker pubblicava su Science un articolo piuttosto esplicito, a dispetto di un punto interrogativo: “Climatic Change: Are we on the Brink of a Pronounced Global Warming?”. Quel punto interrogativo aveva a che fare con l’ovvia prudenza di uno scienziato che conosce la differenza tra la fisica della nostra atmosfera e la stregoneria: ma (come tanti altri) Broecker sapeva di aver ragione. E il tempo, purtroppo, gliel’ha data tutta.
La vera domanda è quindi perché abbiamo perso quarantaquattro anni (44!) di tempo? Forse perché le tesi di Broecker e dei suoi colleghi (e, più modestamente, di ambientalisti e altri cittadini preoccupati per quello che sta per arrivarci addosso) hanno faticato a essere “riconosciute” come serie e credibili, magari per gli sforzi economici dei petrolieri che si sentivano minacciati?
No, quello (paradossalmente) è venuto dopo. La macchina del fango del “negazionismo climatico” è arrivata dopo. Perché Lorsignori sapevano già prima della pubblicazione dell’articolo di Broecker cosa stava succedendo: il presidente dell’American Petroleum Institute (API) già nel 1965 avvisava che di tempo ne era rimasto poco per evitare la catastrofe, previsioni confermate in un rapporto scientifico del 1968 (un anno prima dello sbarco sulla Luna!) commissionato, ma non reso pubblico, dalla stessa API.
E il recente report su Climate change and poverty (pubblicato lo scorso giugno dallo Special Rapporteur on extreme poverty and human rights delle Nazioni Unite), ci conferma che solo quattro anni dopo la pubblicazione dell’articolo di Broecker! (e fino al 1983) API ha organizzato una “CO2 and Climate Task Force”.
Si potrebbe pensare che una task force pagata dai petrolieri magari arrivasse a conclusioni opposte di quelle dei climatologi, ma sappiamo che nel 1980 questa task force (pur concentrandosi già allora sugli “errori” di queste stime), analizzando le pubblicazioni scientifiche disponibili, concludeva che c’era “una forte evidenza empirica” che l’aumento della CO2 derivasse “principalmente dalla combustione di fonti fossili” con la consapevolezza che un incremento annuale del 3 percento della CO2 in atmosfera avrebbe condotto a un aumento delle temperature dell’ordine di 2,5°C “con uno stop alla crescita economica mondiale, intorno al 2025”. Seguiva una stima che riteneva “verosimile” nella seconda metà del secolo “effetti globali catastrofici”.
Quindi: perché? Perché i leader del nostro Pianeta hanno preferito (e continuano a preferire) gli interessi dell’industria petrolifera che adesso cerca pure di spacciarsi come “verde e sostenibile” (il caso di ENI è tipico, con balle come il gas amico dell’ambiente o i biocarburanti prodotti dall’olio di palma…) a quelli di noi tutti (e, diciamolo pure, dei loro stessi figli)?
Il citato rapporto Climate change and poverty lascia intravedere una risposta a questa domanda, sollecitandoci a pensare che chi ha accumulato soldi e potere nell’epoca dell’Antropocene potrebbe avere l’intenzione di usare quei mezzi in modo autoritario e non democratico (vedere alcune recenti dichiarazioni del Presidente Putin) per gestire una fase in cui le risorse del Pianeta crolleranno e non ci sarà più nulla da redistribuire.
Forse non è la fine della Storia, ma se basta un messaggio dell’Ambasciata russa per convincere il Ministro dell’Interno a bloccare le proteste contro le raffinerie di Lukoil a Siracusa, ecco, forse è bene evitare di perdere altri 44 anni prima di reagire.””