I muscoli fragili del ganassa
Articolo di Gad Lerner (Repubblica 17.8.19) “Dal decisionismo condito di disprezzo ai toni più bassi delle ultime ore. Per la prima volta sperimenta come, in politica, la forza possa facilmente trasformarsi in debolezza”
“”In milanese viene detto "ganassa" chi esibisce virtù e muscoli di cui è sprovvisto, esponendosi a indecorosi dietrofront. Possibile che a Matteo Salvini sia bastato sbagliare i tempi della crisi balneare — ormai glielo rimproverano anche i leghisti, a cominciare dall’astuto Giorgetti — per rivelarsi un ganassa? Quasi che il profilo forzuto con cui era riuscito a imporsi sulla ribalta mondiale, contenesse in sé il germe di un’insospettabile fragilità? L’estremismo politico spesso si nutre del carattere impulsivo dei suoi leader. Velocità, decisionismo, spregiudicatezza tattica, sono le loro armi a doppio taglio: in caso di fallimento, si ritorcono contro. Così, il repentino passaggio dal proclama di Pescara («Chiedo agli italiani pieni poteri, senza palle al piede») al balbettio di Castel Volturno («Mai detto di voler staccare la spina al governo»), ha rivelato in Salvini una vertigine d’insicurezza che nessuna macchina propagandistica sarebbe in grado di mascherare. L’abbiamo intuito perfino nel modificarsi della gestualità e della postura dell’uomo autoconvocatosi in una notte di mezza estate alla conquista del potere: il passaggio dalla tracotanza rivestita d’ironia, a improvvisi singulti di commozione.
Pieni poteri
Riceviamo da Enzo Marzo e volentieri pubblichiamo. Di seguito due articoli odierni di Nadia Urbinati e e Antonio Girelli, tra i tanti che sono usciti in questi giorni alcuni dei quali riporteremo nei prossimi giorni.
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- “””Non sono nato per scaldare la poltrona. Chiedo agli italiani se hanno la voglia di darmi pieni poteri per fare quel che abbiamo promesso di fare, fino in fondo e senza rallentamenti (Matteo Salvini, Pescara, 8 Agosto 2019)
- Mussolini ottenne la prima legge sui “Pieni poteri” il 3 dicembre 1922.
- Hitler ottenne il Decreto dei Pieni poteri (Emächtigungsgesetz) il 24 marzo 1933”
FATE VOI
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“Non cadiamo nel baratro populista“. Articolo di Nadia Urbinati (manifesto 11.8.19) “Crisi di governo. Sembra di capire che il Partito democratico preferisca un governo chiaramente salviniano per potersi meglio fare le ossa e crescere nei consensi grazie alla polarizzazione”
“”Si assiste in queste ore convulse ad una gara di entusiasmo per il voto anticipato. Nel nome della chiarezza, del non inciucio, del far parlare gli italiani – a destra come a sinistra, tutti stregati dal ritorno alle urne. E Matteo Salvini dirige questo garrulo coro nel quale poco o nulla ci si preoccupa delle possibili conseguenze di un monocolore targato Lega. Eppure bisognerebbe preoccuparsi molto proprio in base a quello che Salvini ha mostrato di poter fare in questo anno di governo di coalizione, e per quel che ha detto nel comizio a Pescara:
La voglia di pieni poteri
Articolo di Sebastiano Messina (Repubblica 10.8.19)
“”Ma in fondo che male c’è, se un politico chiede "pieni poteri" per poter governare bene? Matteo Salvini sa bene che i suoi elettori non ci trovano nulla di male, anzi, nella richiesta che lui ha messo sul tavolo nel suo comizio di Pescara. Pieni poteri per non essere più prigioniero dei "no" («Non li sopporto più, i no: no qui, no là, no su, no giù»). Pieni poteri per eliminare il caos («Regole, ordine e disciplina»).
Pieni poteri per «prendere in mano questo Paese e salvarlo». Già: che male c’è? Basta chiudere gli occhi, per restare tranquilli. E dimenticare – o far finta di non sapere, che è peggio – cosa significhi questa formula che libera l’uomo forte dalle regole e dai contrappesi di quel complicato sistema chiamato democrazia. Due parole, "pieni poteri", che nessun uomo politico aveva osato pronunciare prima di Salvini, nei 73 anni della Repubblica.
L’ultimo che lo fece fu il maresciallo Pietro Badoglio, il 25 luglio del 1943, annunciando agli italiani che aveva preso il posto di Mussolini: «Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il governo militare del Paese con pieni poteri». Ma era un’Italia in guerra, e quella parentesi tra il prima e il dopo durò solo nove mesi, dunque nessuno ricorda Badoglio – che pure era un militare - come un dittatore. Chiunque abbia vissuto quegli anni – o abbia aperto un libro di storia contemporanea – sa invece che la richiesta di pieni poteri fu proprio l’atto che aprì la strada al fascismo e al nazismo.
Benito Mussolini li ottenne il 25 novembre del 1922, quattro settimane dopo la marcia su Roma, «per ristabilire l’ordine» ma solo sul terreno del fisco che allora come oggi era fertilissimo per la raccolta del consenso. Una legge di sole sette righe, votata dagli stessi parlamentari che nove giorni prima lui aveva spavaldamente avvertiti, con un minaccioso discorso passato alla storia: «Con 300 giovani armati di tutto punto io potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato il fascismo. Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento…». E il "decreto sui pieni poteri" fu anche la seconda richiesta che Adolf Hitler presentò al parlamento tedesco, il 23 marzo 1933 (la prima era stata il «decreto dell’incendio del Reichstag», un mese prima, che abrogava la libertà di stampa e i diritti civili). Con una rapidità ancora superiore a quella del duce, il futuro fuhrer ottenne il fondamentale potere di emanare leggi senza passare per il Reichstag.
Citazioni. Come sono nati nel ‘900 i vari fascismi
Citazione di Giulio Giorello (dal suo libro “Libertá”, pag 138, Bollati Boringhieri)
””.. Basti solo pensare a come sono nati nel Novecento i vari fascismi: ricerca ossessiva di capri espiatori; ferocia nei confronti di ogni dissidente; disprezzo di qualsiasi sovranità del consumatore; paura della culrura, della scienza, dell’istruzione per tutti; sterminio delle varie libertà di pensiero, parola, espressione (anche non verbale); culto non della vita ma della morte (Viva Nel lessico del generali Francisco Franco e dei suoi alleati). Preferiamo Spinoza, Ethica, Parte IV, Proposizione 67: “L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte, e la sua sapienza è una meditazione non della morte, ma della vita’ .. “”
Per il 58% serve un uomo solo al comando
Articolo di Ilvo Diamanti (Repubblica 28.1.19) "Gli italiani vogliono il leader forte piace la democrazia senza partiti. I più convinti della necessità di avere un leader forte sono gli elettori della Lega: oltre otto su 10. Poi seguono gli elettori di Forza Italia (76%)."
""La "nostra" democrazia sta cambiando. Non da oggi. Ma, da qualche tempo, i segni del mutamento appaiono più evidenti. In Italia come (e più che) altrove. Mi riferisco, specificamente, alla democrazia "rappresentativa". E, in particolare, al declino dei partiti. Il principale canale della rappresentanza. La "democrazia dei partiti", che abbiamo conosciuto nel corso del dopoguerra, si è trasformata in "democrazia dei leader". Anzitutto, perché i partiti si sono "personalizzati". Soprattutto, a partire dagli anni Novanta, dopo il crollo della Prima Repubblica. E dei partiti che l’avevano accompagnata. La svolta, allora, venne segnata da Silvio Berlusconi. L’imprenditore dei media, presidente del Milan, che divenne imprenditore politico. Giusto 25 anni fa, nel 1994, "scese in campo", mutuando tecniche e linguaggi dall’impresa e dal calcio. Fondò "Forza Italia" e denominò "azzurri" i suoi elettori. FI apparve subito un "partito personale" – come lo definì Mauro Calise. Ideologia, organizzazione, dirigenti: tutti espressi da Berlusconi. Riconducibili alla sua persona.
Urge la memoria del presente
Articolo di Fabrizio Tonello (manifesto 26.1.19)
""Quando si istituiscono i «giorni della memoria» vuol forse dire che la memoria è scomparsa e che non si sa più di cosa si stia parlando? Sarebbe quindi meglio forse abolire subito la legge 211 del 2000? Quella che istituisce il 27 gennaio come data in cui ricordare la Shoah e le leggi razziali, prendendo atto che gli incontri, i concerti, i monumenti alle vittime delle violenze nazifasciste sono stati un fallimento? Domenica risuoneranno in tutta Italia i giusti appelli a «non dimenticare» ciò che accadde nel 1933-45, mentre martedì scorso, vicino a Roma, è iniziato lo sgombero all’alba di una struttura abitativa, usando l’esercito. Separazione delle famiglie. Rifiuto di comunicare dove le vittime dell’operazione vengono deportate. Tutto normale, per gli organi di propaganda del regime nell’Italia del 2019, esattamente come il «mantenimento dell’ordine» nella Germania del 1936 sembrava un necessario accompagnamento delle scintillanti esibizioni degli atleti olimpici. Il problema non è che l’Italia di Salvini sia come la Germania di Hitler, ci mancherebbe: la questione è invece che la retorica del «male assoluto» ha nascosto le radici profonde, e la terribile normalità, della violenza contro i diversi.
Ben Jelloun, i diciotto mesi all’inferno che non riuscii mai a confessare
Articolo di Maurizio Molinari (Stampa 22.9.18) “Da giovane fu incarcerato e torturato per avere partecipato a una manifestazione studentesca pacifica: lo scrittore marocchino racconta la “punizione” che gli ha segnato la vita (e un doloroso segreto)
“”Ogni scrittore ha almeno un segreto da raccontare e Tahar Ben Jelloun sfrutta l’occasione del suo ultimo libro, La punizione edito da La nave di Teseo, per descrivere l’esperienza di detenzione in Marocco nel 1965, sotto il regno di Hassan II. 135 pagine che accompagnano il lettore in un viaggio che richiama alla mente, in riedizione maghrebina, Il Castello di Kafka ovvero un universo di potere, silenzi e contraddizioni in cui l’unico fine è l’oppressione di chi ha la sventura di trovarsi in una sorta di inferno terreno. La storia, personale ed autobiografica, che l’autore racconta è una detenzione illegittima, la propria. Ben Jelloun, allora ventenne, ha semplicemente partecipato insieme ad altri ragazzi a una manifestazione studentesca, pacifica. Siamo nel Marocco degli Anni Sessanta in piena stagione di decolonizzazione, con i giovani contagiati dalle idee di libertà che arrivano dall’Europa e dall’Occidente, protagonisti di sogni destinati al più amaro dei fallimenti.
Internet e diritti. Eravamo persone ora siamo solo dati
Articolo di Michele Ainis (Repubblica 13.6.18) “Il valore umano viene stabilito da algoritmi che studiano le abitudini in Rete E questo ha dei riflessi anche sulla nostra identità, sul nostro senso di precarietà, sulla nostra psiche”
“”I neri d’America ridotti in schiavitù – diceva Tocqueville – non s’accorgevano della loro disgrazia: avevano assimilato i pensieri d’uno schiavo, e in genere ammiravano i propri tiranni più di quanto li odiassero. La nostra condizione non è troppo dissimile. Guardiamo alla Silicon Valley come a un Eldorado, un paradiso tecnologico. Siamo grati ai giganti della Rete per le opportunità sempre più allettanti che ci offrono. Usiamo ogni nuova diavoleria come un giocattolo, e guai a chi ce lo toglie dalle mani. Infine tutto questo Bengodi è gratis, non costa nulla. Ma non è affatto un regalo, casomai uno scippo. Lo scippatore ci svuota le tasche sia quando digitiamo qualcosa su un motore di ricerca, sia quando rimaniamo inerti: basta possedere un dispositivo mobile perché ci arrivi un consiglio non richiesto, la réclame d’un ristorante che si trova proprio sul nostro itinerario, il titolo del film proiettato nel cinema che stiamo oltrepassando. E dalle nostre tasche lo scippatore estrae di tutto, non soltanto i gusti di consumo: dati sanitari, opinioni politiche, predisposizione al rischio, inclinazioni sessuali, convinzioni religiose. Qualche esempio.
Asia e Pacifico. Una mentalita’ arretrata opprime l’India
L'opinione di uno scrittore indiano di Manu Joseph, LiveMint, India (Internazionale 30.6.17) "La cultura rurale porta con sé un bagaglio di disuguaglianza, oppressione e sessismo. E mette a rischio la battaglia per la modernità nel paese"
Di questi tempi il fascino per i contadini è molto diffuso tra le persone che non hanno a che fare con loro. Li vedono semplici e genuini, nobili come le verdure biologiche. Ricchi o poveri, maschi o femmine, di casta elevata o dalit, braccianti o latifondisti: sono tutti, indistintamente, contadini. E questa idea si è diffusa anche tra i contadini. A marzo un gruppo di tamil è andato a protestare a New Delhi indossando perizomi e ghirlande di teschi appartenenti, a quanto pare, a coltivatori morti suicidi. Tenevano tra i denti topi vivi e brandelli di serpenti per attirare l’attenzione del primo ministro e ottenere la possibilità di rinegoziare i prestiti. A nessun altro sarebbe stato concesso di presentarsi così, ma loro erano contadini. Se l’intera categoria non fosse identificata con l’immagine del contadino povero, sarebbe chiaro a tutti che i contadini sono i principali nemici della popolazione urbana. Sono gli imprenditori che trattano i loro prodotti con sostanze chimiche per farli sembrare freschi; i più ricchi tra loro non pagano le tasse; sono i più grandi consumatori di acqua potabile, assorbita per l’80 per cento dalla coltivazione di prodotti come il riso, per cui ricevono sussidi; pagano poco o nulla per l’energia che consumano. Ma i contadini sono nemici dei progressisti di città per un altro motivo: abitano nei villaggi. Gli abitanti di un villaggio hanno istinti tribali. Sopravvivono solo come parte di un gregge, per loro l’appartenenza è tutto. Devono difendere la casta, la gerarchia sociale e l’odio religioso, nonché la superiorità dell’uomo sulla donna. Possono anche essere oppressi, ma per chiunque si trovi sotto di loro sono degli oppressori. Considerano ordine sociale la “tradizione” e disordine civile la “libertà”. Per B.R. Ambedkar, intellettuale simbolo nella lotta contro le discriminazioni in India, la liberazione dei dalit implicava la loro emancipazione dal villaggio. Chi emigra in città, oggi come allora, non lo fa solo per motivi economici, ma anche perché cerca l’anonimato, vivendo l’identità come una maledizione. Solo che le città sono diventate le più grandi roccaforti del villaggio feudale. La gente di villaggio affolla il parlamento, le assemblee locali e gli organismi municipali; riempie gli uffici statali, gestisce imprese, vive nei ghetti più ricchi di Mumbai.
Referendum turco. Erdogan «di regno e di governo»
Articolo di Franco Cardini (Internazionale 16.4.17) "Si decide oggi, in via referendaria, se la Turchia manterrà l’assetto istituzionale di repubblica parlamentare scelto nel 1923 o se si trasformerà invece in repubblica presidenziale secondo gli auspici del reis Recep Tayyip Erdogan"
""Ecco, per la repubblica turca, è il Grande Giorno. Si decide oggi, in via referendaria, se essa manterrà l’assetto istituzionale di repubblica parlamentare scelto nel 1923 o se si trasformerà invece in repubblica presidenziale secondo gli auspici del reis Recep Tayyip Erdogan. Per grandi linee e in estrema sintesi i cittadini turchi dovranno de approvare o respingere un “pacchetto” di 18 emendamenti alla Carta costituzionale del ’23.
Tra essi, sono di un qualche rilievo quello “garantista” che prevede la possibilità d’impeachment, quello vagamente demagogico e in fondo non necessariamente “autoritario” riguardo la riduzione dei membri dell’Assemblea Nazionale, quello decisamente indice di “discontinuità” secondo il quale saranno abolite le corti militari, presidio da sempre del “laicismo” kemalista. Ma i due emendamenti che qualificano in modo evidente la svolta sono quello che riguarda la durata del mandato presidenziale (due legislature, vale a dire un decennio, dopo le prossime elezioni previste nel ’19) e quello che concerne l’abolizione della carica di primo ministro: il che vuol dire che Erdogan resterà alla guida del popolo turco fino alle elezioni del ’29. Resterà presidente indipendentemente dall’esito delle elezioni del ’19 e del ’24 (e ci resterà come capo del suo partito, dato che un altro emendamento prevede che il presidente non sia tenuto ad abbandonare lo schieramento dal quale proviene: che non debba più essere quindi almeno formalmente super partes). Il suo sarà effettivamente un potere, diciamo così, di “regno e di governo”, secondo il modello americano anziché secondo quello francese o tedesco, che prevedono rispettivamente un primo ministro o un cancelliere che affianchi il capo dello stato esercitando le funzioni di capo del governo.