Freud erede legittimo della propria epoca
Articolo di Ivan Tassi (manifesto 15.11.15) "Psicoanalisi. «Sigmund Fued nel suo tempo e nel nostro»: Elisabeth Roudinesco inverte la «leggenda» costruita da Ernest Jones" e Intervista a Elisabeth Roudinesco di Fabrizio Palombi (manifesto 15.11.15)"
Articolo di Ivan Tassi
""Un problema attende chiunque voglia tornare oggi a misurarsi con la vita di Sigmund Freud: nel corso dei decenni, una nutrita schiera di biografi non troppo scrupolosi si è ostinata a infrangere più volte il divieto con cui lo stesso Freud, prima di equiparare la pratica della biografia alla menzogna, si affrettò a negare al «pubblico» ogni «diritto» di parola sulla sua «persona». L’eccesso di commenti abusivi accumulati attorno alla carriera di Freud, per questi versi, avrebbe generato una moltiplicazione indebita e incontrollata di «fantasmi», che ci impedisce ormai di comprendere, come in un labirinto di specchi, «chi fosse veramente» il fondatore della psicoanalisi.
È su questi presupposti che Élisabeth Roudinesco apre l’ambiziosa biografia Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro (Einaudi, pp. XII-489, 34), per dedicarsi a un’operazione di ripulitura e di demistificazione. Non si tratta soltanto di denunciare le «strampalate dicerie» dei predecessori, basandosi in primo luogo sui materiali emersi dopo la recente apertura dei Sigmund Freud Archives di Washington. L’obiettivo principale, per Roudinesco, consiste nel rovesciare la «leggenda» di cui sarebbe responsabile, assieme a Freud, anche la Vita redatta fra il 1953 e il 1957 dal suo primo biografo autorizzato, Ernest Jones.
Al contrario di quanto voleva farci credere Jones, Freud non coinciderebbe affatto con un «eroe della scienza», capace di voltare le spalle alla sua formazione positivista per poi «inventarsi tutto», dall’alto di uno «splendido isolamento» che nulla deve alla sua epoca. È stata invece quella stessa epoca a «costruire» e in qualche modo a guidare i passi di Freud; e per accorgersene basta imboccare il sentiero non battuto da Jones, inserendo «l’opera di Freud e la sua persona» nella «lunga durata della storia».
Non si può dire che l’applicazione di questa metodologia – ereditata dagli storici della scuola francese delle Annales, e già sperimentata da Henry Ellenberger fin dal 1970 – ci consegni risultati imprevedibili. Mentre ci invita a ripercorrere la carriera di Freud come una «saga» d’assalto, proiettata ad assoggettare le sfere della politica, della filosofia e della religione, Roudinesco ci restituisce l’immagine di un «conquistatore» refrattario ad ammettere i propri debiti intellettuali verso alcuni «nemici-amici» (come Josef Breuer e Wilhelm Fliess) e verso un «ambiente» che in definitiva avrebbe alimentato le scoperte della psicoanalisi, spesso accogliendole con benevolenza.
Ogni tappa della «rivoluzione terapeutica» freudiana si potrebbe per l’appunto giustificare, secondo Roudinesco, attraverso il ricorso al contesto storico. E se il pensiero di Freud, in questa prospettiva, troverebbe la propria matrice non nel più vicino positivismo, bensì nello spirito dei «lumi oscuri», dello Sturm und Drang e del «Romanticismo nero», l’origine della psicoanalisi andrebbe rintracciata nell’attenzione sociale rivolta fin dalla seconda metà del XIX secolo alla questione delle «donne isteriche» o della «masturbazione infantile»: persino l’invenzione dell’Edipo sarebbe da ancorare a un «ritorno ai tragici greci» che alla fine dell’Ottocento risultava «all’ordine del giorno».
Dal momento che simili connessioni sembrano in parte dettate dal desiderio di sabotare l’emblema di un Freud eroicamente isolato, e di imbrigliarlo a tutti i costi fra le maglie del suo tempo, conviene forse seguire il percorso biografico lungo le direttrici trascurate da Jones.
Autorizzata dalla tradizione delle Annales, che per bocca di March Bloch si raccomandava di coinvolgere nell’indagine storica ogni dettaglio della «vita quotidiana», Élisabeth Roudinesco si impegna sotto questo aspetto ad allargare a dismisura il campo d’analisi. Da una parte, la sua esplorazione ci introduce in casa Freud, per sfatare i pettegolezzi sull’entourage familiare, o per passare in rassegna la mobilia, le suppellettili e addirittura gli animali domestici che fecero da contorno alle grandi scoperte.
Dall’altra, l’itinerario si impegna ad aprire continue digressioni sull’inedito destino dei discepoli della psicoanalisi, dei suoi dissidenti e soprattutto dei pazienti che si sedettero sul divano di Freud, per registrare «i suicidi, gli errori, i resoconti delle cure» che Jones, nel tentativo di mettere in ombra gli «anti-eroi» dell’epopea freudiana, aveva passato sotto silenzio.
È in questo modo che il tragitto della biografia sembra andare incontro più alla dispersione che alla demistificazione. Sottoposta alla lunga durata della storia, e invasa dalla costante irruzione di personaggi gregari, l’avventura freudiana rischia di sfaldarsi ad ogni pagina in un reticolato policentrico di connessioni meccaniche, punti di fuga e percorsi paralleli. Non solo. Se da un lato il proposito di offrirci una immagine «meno aggrovigliata» porta Roudinesco ad allestire una biografia dove Freud, per la prima volta, viene spogliato del suo protagonismo, dall’altro quella stessa immagine, volta a sostituire la «leggenda eroica» fabbricata da Jones, non arriva ad appianare né a gettare sotto una luce davvero nuova le contraddizioni di cui continua a nutrirsi la «saga» del fondatore della psicoanalisi.
Restano infatti da sciogliere, sotto questo versante, soprattutto alcuni nodi cruciali del cammino di Freud, come il suo rapporto ambiguo e tormentato con l’ideologia della classe borghese, oppure la radice positivistica della sua formazione, qui neutralizzata a vantaggio di una componente più «faustiana» e romantica.
Al termine della ricognizione, vengono allora in mente le parole di Freud, che nel 1885, subito dopo aver distrutto la sua corrispondenza e i suoi manoscritti privati, proclamava alla fidanzata: «Che i biografi si arrovellino pure, noi non renderemo facile la loro fatica. Lascia pure che ciascuno di loro pensi che la sua ‘Concezione dell’Evoluzione dell’Eroe’ è quella giusta: già adesso mi diverto al pensiero di come se ne andranno tutti fuori strada».""
Intervista a Elisabeth Roudinesco di Fabrizio Palombi (manifesto 15.11.15) "Freud, Lacan, Heidegger, Derrida" "Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro: la biografia uscita da Einaudi" "Per ricostruire l’ambiente storico del fondatore della psicoanalisi mi ispirai a Le Goff" "Insieme a Derrida organizzai nel 2000 gli Stati Generali della psicoanalisi: l’eco fu enorme, ma si spense presto""
""La sua biografia si aggiunge, oggi, ai numerosi studi già pubblicati in tutto il mondo su Sigmund Freud. Quale esigenza l’ha indotta a scriverla, e come riassumerebbe quel che differenzia il ‘suo’ Freud da quello di altri studiosi?
Avevo l’urgenza di studiare nuovamente Freud, in una prospettiva storica e perciò mi sono ispirata all’impostazione con la quale Jacques Le Goff ha scritto il suo libro su San Luigi, nel quale si mostra come il santo venisse pensato diversamente a seconda delle diverse epoche storiche. Volevo sottolineare la necessità e l’attualità di un nuovo «ritorno a Freud», che coinvolga, non tanto e non solo gli psicoanalisti, ma gli studiosi e il grande pubblico, oltrepassando sia le posizioni antifreudiane sia quelle idolatriche. Il mio lavoro intende evidenziare l’importanza della rivoluzione simbolica freudiana che ha inventato il soggetto moderno, il soggetto edipico.
Quando parla della necessità di un «ritorno a Freud», si richiama a una esortazione resa celebre da Jacques Lacan: in che modo la frequentazione dei testi dello psicoanalista francese ha influenzato i suoi studi su Freud?
Il ritorno di Lacan a Freud non riguardò la dimensione storica: il problema, piuttosto, era leggerlo in modo diverso da quello psicologizzante, in voga negli anni cinquanta. Non c’erano ancora, al tempo, studi approfonditi sull’ambiente viennese, mancavano circa vent’anni alla pubblicazione dello studio di Henri Ellenberger e non era disponibile il materiale conservato negli archivi della Biblioteca del Congresso di Washington, documenti che io invece ho potuto usare ampiamente e dei quali ho proposto un inventario. Un ritorno a Freud in chiave storica penso possa rappresentare anche una efficace risposta a quelle ricostruzioni diffamatorie che lo hanno descritto, di volta in volta, come cocainomane, dittatore, reazionario o filonazista.
Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1994, lei descrive gli incontri con grandi intellettuali della seconda metà del Novecento: Lacan, Foucault, Althusser, Derrida. Quali sono i ricordi più significativi che associa a ciascuno di loro?
Lacan lo conoscevo benissimo sin da bambina, perché era un amico di mia madre, anche lei psicoanalista. Successivamente, la pubblicazione dei suoi Scritti mi permise di scoprire il clinico e l’intellettuale, che trovai straordinari. Non ho mai avuto una conoscenza personale di Foucault però ho seguito un suo seminario all’università di Vincennes: il suo duplice versante, di storico e di filosofo, gli trasmetteva un grande fascino. Althusser l’ho incontrato nel 1972: era un uomo adorabile, un amico che mi ha incoraggiato a scrivere e ha avuto un ruolo importantissimo nella mia vita. Derrida l’ho conosciuto più tardi, nel 1986, e l’ho stimato molto sebbene avessi inzialmente criticato severamente i suoi testi e il suo orientamento filosofico.
In dialogo con Jacques Derrida ha scritto un libro, intitolato «Quale domani?», il cui primo capitolo riprende la questione dell’eredità, molto cara al filosofo francese. Anche lei concepisce i suoi lavori storici, e dunque questa recente biografia di Freud, come un lascito necessario a orientare le nuove generazioni?
Derrida ci ha lasciato una grande eredità insegnandoci che il modo migliore per essere fedeli a un maestro è quello di essergli infedeli: bisogna essere capaci di ammirare e di criticare contemporaneamente un autore per scriverne qualcosa d’interessante. Una delle esperienze che più mi ha segnato, nel mio rapporto con Derrida, è stata l’organizzazione degli Stati Generali della psicoanalisi nel 2000. Ne risultò una formidabile discussione, con studiosi provenienti da trentacinque paesi: al momento l’eco fu enorme, ma poi, purtroppo, andò rapidamente ad affievolirsi. Dopo, ho avuto la sensazione che gli psicoanalisti si siano ritirati dalla vita intellettuale e scientifica pubblica, rifugiandosi nelle proprie scuole, incapaci di rispondere, nel senso derridiano, alle grandi questioni poste dagli Stati Generali: è il sintomo di una più generale loro inadeguatezza a fronteggiare l’altezza delle trasformazioni del mondo contemporaneo. Hanno condotto battaglie molto giuste contro gli eccessi della psichiatrizzazione e quelli dei trattamenti farmacologici senza però riuscire a rilanciare un confronto culturale con i nuovi problemi e saperi che sono andati affermandosi negli ultimi decenni. Alcuni hanno pensato di trovare conforto nelle neuroscienze: una scorciatoia teorica alla quale non sono favorevole perché dissolve l’autonomia e la specificità della psicoanalisi. Altri hanno attuato una sorta di ripiegamento estetizzante e apolitico, dedicandosi soprattutto agli studi letterari. Oggi si accontentano di essere psicoterapeuti senza interessarsi più alle questioni storiche e teoriche.
Lei racconta di aver seguito le lezioni tenute da Gilles Deleuze, di cui ricorre quest’anno il ventennale della morte, poco prima dell’uscita dell’Anti-Edipo nel 1972: come lo ricorda?
Sì, sono stata un’allieva di Deleuze all’università di Vincennes: era un insegnante straordinario, che riusciva a far saltare ogni forma di dogmatismo. Non ero d’accordo con lui su molte cose e, in particolare, sulla sua proposta di interpretare l’inconscio come fabbrica e non come tragedia. Le tesi dell’Anti-Edipo, ferma restando la grandezza del libro e il valore della sua scrittura, sono secondo me piuttosto insostenibili.
La ricerca storica sul passato recente si avvale dell’analisi dei documenti ma anche della voce dei testimoni diretti. Quanto hanno contato per lei le fonti, e quanto i testimoni? E come pensa si potrà andare avanti nella ricostruzione storica, per esempio della Shoah, ma non solo, ora che la generazione dei testimoni si va estinguendo?
Oggi, in tutto il mondo, sono rimaste poche le persone che hanno potuto conoscere Freud nella loro infanzia. Nella mia biografia, le testimonianze dirette hanno contato pochissimo anche se mi sono avvalsa del grande lavoro fatto da Kurt Eissler che ne ha trascritte tante. Al contrario, nel lavoro che ho dedicato a Lacan, ho potuto contare su duecento testimonianze di persone che l’avevano conosciuto. Si teme che la scomparsa degli ultimi sopravvissuti alla Shoah possa provocare un indebolimento della memoria collettiva di questa immane tragedia. Credo si tratti di una paura infondata perché i testimoni hanno già raccontato le loro dolorose vicende, che sono state trascritte. Non credo assolutamente che la morte degli ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio potrà agevolare l’antisemitismo.
Lei torna sulla sua avversione a ogni forma di discriminazione e, in particolare, all’antisemitismo, anche nel capitolo della sua biografia dedicata a Freud intitolato «Di fronte a Hitler». La recente pubblicazione dei «Quaderni neri» di Heidegger ha ridimensionato la sua considerazione del filosofo tedesco?
Sono serena di fronte a questa questione, forse perché non sono mai stata heideggeriana. Il nazismo di Heidegger era già conosciuto fin dal 1933 e questo ha provocato un dramma imponendo subito a Karl Jaspers, Hannah Arendt e ai contemporanei di Heidegger un’inquietante domanda: in che modo l’autore di Essere e tempo ha potuto trovare nel nazismo una consonanza con il suo pensiero? Nel secondo dopoguerra tentò di presentarsi come una vittima mentendo sul suo passato nazista, ciò che ne fa ai miei occhi una persona esecrabile: si atteggiava a vittima senza aver mai speso una sola parola sullo sterminio degli ebrei. Ma è grottesco che in Francia si debba affrontare un affaire Heidegger, ogni dieci anni. Ciclicamente si sostiene che è stata nascosta la compromissione di Heidegger con il nazismo; ma è una mistificazione. Il brutto libro di Victor Farias, pubblicato nel 1987 e dedicato a questo problema, non deve essere letto solo come un attacco contro il filosofo tedesco ma anche contro Derrida, considerato come uno dei massimi esponenti dello heideggerismo francese. I Quaderni neri aggravano la posizione di Heidegger non solo per il loro contenuto antisemita ma per la loro collocazione nella successione dei volumi delle sue opere complete. Facendoli stampare nell’ultima parte delle Gesamtausgabe Heidegger stesso ha contribuito a nazificare per la posterità la sua opera che, invece, può essere letta in un’altra luce. Ho toccato questo problema in alcune pagine del mio libro riguardanti l’antisemitismo di Heidegger che, tra l’altro, detestava Freud, perché sosteneva fosse il fondatore di un modo di pensiero, incompatibile con quello dell’essere, che tendeva a spiegare ogni cosa in termini puramente istintuali. Non credo che la filosofia di Heidegger sia completamente indenne dalle sue scelte politiche, anche se, come ha detto Derrida, la si può leggere in un altro modo: a condizione farsi carico di questo problema spaventoso.
Sta per terminare il 2015, l’anno in cui il saggio freudiano sull’«inconscio» ha compiuto un secolo, segnando una svolta fondamentale nel sapere sull’uomo. A suo parere, esistono ancora, da un punto di vista teorico, margini di lavoro sul concetto di ‘inconscio’?
Sicuramente ce ne sono molti anche se non condivido alcuni di quelli al centro dell’attuale dibattito psicoanalitico. Penso, innanzitutto, alla questione dell’inconscio originario, un ‘oltre’ l’inconscio, che sarebbe all’origine della psicosi; è una prospettiva di ricerca che riconduce il dibattito sul trauma e la seduzione infantile a un’interpretazione giustamente abbandonata da Freud. Credo si tratti di una china pericolosa che ha condotto alcuni, come Jeffrey M. Masson negli Stati Uniti, a interpretare tutti i traumi infantili come effetti di abusi di tipo sessuale. Un altro tipo di ricerca sull’inconscio, molto attuale, lo interpreta in senso neurologico e cognitivo tentando di trovare nei neuroni la conferma di alcune ipotesi di Freud. Non credo sia una strada giusta perché si confrontano indebitamente oggetti di studio appartenenti a ambiti completamente diversi: di certo non è possibile trovare la sede dell’inconscio psicoanalitico nei neuroni.""