L’albero della laicita’ e le sue radici
Articolo del nostro iscritto Gianni Benevelli (iniziativa laica.it 9.12.15)
Chiunque si stupisca per la vita cosciente scaturita da un cosmo evolutivo e s’interroghi sul senso dell’esistenza, alla luce della fatalità del vivere per morire, non può non prendere posizione di fronte a tale enigmatica realtà e domandarsi, laicamente, come si possa dare un significato alla vita prescindendo da ogni “verità dottrinale”. La risposta è: fare proprio il principio che la Vita stessa e la dignità del Vivente costituiscano il bene supremo.
Il viandante del terzo millennio è pellegrino in un mondo secolarizzato che ha smarrito certezze antiche: quelle che in passato erano radicate nelle norme di una religiosità intangibile. Quale cammino additargli per edificare nella giustizia un modello di società, non alienante ma umanizzante, che sappia elevare l’uomo a Persona? Quale messaggio proporgli perché nel cuore di tutti gli uomini di buona volontà e minimo buon senso mai venga ammainata la bandiera della Vita?
Il suggerimento lo troviamo in un Pensiero, pienamente condivisibile, di Pascal: “l’uomo è visibilmente nato per pensare; e nel pensare rettamente sta tutta la sua dignità” (146).
La ragione critica dell’uomo: il suo corretto esercizio nel giudicare ciò che è giusto, abbinato al diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni nel pieno rispetto di quelle altrui, costituiscono da sempre il cardine del pensiero laico. Ma un altro frutto, portato a maturazione dall’albero della Vita nel corso della sua evoluzione, è così prezioso da costituire la vera pietra miliare della laicità; è la capacità dell’uomo di percepire ciò che è bene e ciò che è male; è quel qualcosa di inesplicabile che è radicato nell’intimo di ogni individuo a formare l’aspetto più qualificante della sua personalità: la coscienza.
È la sua voce che parla al cuore dell’uomo; lo invita a lasciarsi guidare, nelle scelte etiche di vita, dagli imperativi categorici della morale.
Razionalità critica e libera coscienza: sono loro a promuovere l’atteggiamento di rigetto verso gli assolutismi e i dogmatismi di ogni ideologia, sia politica che religiosa. Chi pensa laicamente in modo corretto, pur accettando (talvolta) il mistero che va oltre la ragione, rifiuta (sempre!) il mistero che va contro la ragione. La sua autonomia di giudizio, prendendo atto che la Verità assoluta non appartiene ad alcuno, costituisce il più vigoroso baluardo contro tutte le degenerazioni dello spirito umano, alimentate, in ogni epoca, da fiammate demenziali di fanatismo. La laicità delle società umane, promuovendo la pluralità delle credenze in pacifica concorrenza e reciproca tolleranza, è la più solida garanzia riguardo alle tentazioni integraliste e fondamentaliste di tutte le religioni e delle caste che gestiscono il bisogno spirituale che esiste nell’uomo.
Nei secoli segnati dalla “lunga notte oscura” del cristianesimo reale, l’istituzione cattolico-romana di certo non si prodigò per promuovere la tolleranza a tutti i livelli della vita sociale e religiosa; né tanto meno per riconoscere le libertà di pensiero e di coscienza come valori fondativi di una società autenticamente cristiana. Nulla di simile poteva accadere dopo che il papa matildico Gregorio VII, cedendo a uno slancio invasato di autocelebrazione, ebbe a inaugurare col suo Dictatus Papae (1075) l’ideologia del primato assoluto del romano pontefice; rivendicando a sé solo, successore di Pietro, il diritto di esercitare sulla Terra il potere di Dio. Possiamo infatti leggere: 4) In un Concilio il Papa comanda tutti i vescovi; solo a lui è lecito promuovere sentenze di deposizione. 9) Il Papa è l’unico uomo a cui tutti i prìncipi baciano i piedi. 18) Il Papa non deve essere giudicato da nessuno; ogni suo verdetto non è riformabile; Egli solo può riformare quello di tutti. 23) Il Sommo Pontefice, ordinato canonicamente, per i meriti di S. Pietro è indubitabilmente Santo.
La storia della convivenza umana, in seno alla cristianità, ha conosciuto da allora tristissimi giorni intessuti di violenze fratricide. Il Sant’uffizio inviava al rogo i dissidenti più riluttanti a riconoscere il primato politico-religioso del cattolicesimo, tacciandoli di eresia; tra l’altro, con la benedizione di un teologo finissimo come Tommaso d’Aquino, che giustificava il divino operato del “braccio secolare” col fatto che il malcapitato, espiate col fuoco purificatore le colpe confessate sotto tortura, era spedito diritto in paradiso senza nemmeno dover bussare alla portineria di Pietro.
Coerentemente a tale “evangelica” mentalità un papa, mosso da sacro furore censorio proprio negli anni in cui la circolazione delle idee era favorita dall’invenzione della stampa, prese l’iniziativa di mettere all’indice tutte le edizioni del Nuovo Testamento tradotto nelle varie lingue nazionali (Paolo IV, Appendice romana dei libri proibiti 1558), per impedire la conoscenza di testi così imbarazzanti proprio per coloro che ne avevano tradito lo spirito. Tale ispirazione (che lo Spirito Santo ci abbia messo lo zampino?) sortì naturalmente l’effetto opposto di promuovere la diffusione di quella pluralità delle opinioni che avrebbe preparato l’avvento dell’età dei lumi.
L’illuminismo sorse come movimento filosofico-culturale di emancipazione dell’uomo, per riscattare le società dall’oscurantismo feudale e religioso che ancora soggiogava l’Europa del settecento. Esso si diffuse per abolire l’arbitrio di assurdi privilegi nobiliari ed ecclesiastici e per abbattere un anacronistico assolutismo monarchico che trovava giustificazione e appoggio proprio nel parassitismo dell’aristocrazia e nella corruzione dell’alto clero.
La chiesa del XIX secolo, asservita al potere dei chierici, come reagì alle istanze illuministiche? Avrebbe mostrato tutta la sua riluttanza a rinunciare al suo potere più inebriante: quello che gestisce le coscienze degli uomini.
Dalle encicliche Mirari vos (1832) e Singulari nos (1834) di papa Gregorio XVI:
“la più assurda ed erronea sentenza che debbasi ammettere, è garantire a ciascuno la sua libertà di coscienza (…)”
“molto è da piangere a considerare i deliri dell’umana ragione, allorché taluno cerchi cose nuove e si sforzi di sapere più che saper non convenga; e, troppo in sé presumendo, pensi di cercare la verità fuor dalla Chiesa Cattolica (…)”
Tali sentenze, emesse da chi si autolegittimava detentore del monopolio della verità, rappresentano la più delirante manifestazione di oscurantismo, di imbecillità, di malafede. Esse avrebbero spianato la via, pochi decenni dopo, al dogma dell’infallibilità papale sancita dal Concilio Vaticano I (1870).
“Perciò Noi proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, (…) gode di quell’infallibilità con cui il Divin Redentore volle fosse corredata la Sua Santa Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi (…). Se qualcuno avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia! Sia anatema!”
Ma Pio IX, passato alla storia per tale anacronistico e assurdo dogma, aveva già mostrato il suo volto più meschino quattro anni prima, per la sua accondiscendenza nei confronti della schiavitù. Al punto 14 delle sue “istruzioni” (1866) egli scrive: “La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto estranea alla legge naturale e divina. Possono esserci molti giusti diritti alla schiavitù: sia i teologi che gli interpreti dei Sacri canoni vi hanno fatto riferimento (…). Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato”. Vale la pena di sottolineare che tale istruzione papale veniva emanata 77 anni dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dalla Assemblea costituente di Francia (1789). Con la formulazione dei principi di libertà civile e politica la Dichiarazione dei diritti gettava le basi dell’assetto costituzionale degli stati moderni.
La centralizzazione romana del cattolicesimo, con tale definizione del primato pontificio, pareva essersi chiusa per sempre ad ogni proposta riformatrice. Ma così non fu. Alla fiduciosa attesa di una innovazione teologica e di una ristrutturazione più democratica dell’organizzazione ecclesiale, giunse improvvisa e inaspettata risposta proprio dal vertice della Chiesa cattolico-romana che intese finalmente fare uscire se stessa dal “ciclo costantiniano” che perdurava da sedici secoli.
Il Concilio Vaticano II, convocato nell’ottobre 1962 da papa Giovanni XXIII, intraprese un cammino di rinnovamento. Il nuovo pontefice, che elevò la chiesa al massimo della sua umanizzazione, seppe portarla alla consapevolezza del suo errore storico per aver sempre considerato la società secolarizzata come sua connaturale avversaria; da qui l’impulso ad un atteggiamento nuovo del cattolicesimo nei confronti della modernità e delle sue sfide. Il Vaticano II seppe infatti cogliere, con intuizione profetica, la necessità di un dialogo fecondo tra teologia e scienza, tra fede e ragione, che potesse conciliare la proposta del suo messaggio etico con la risposta del pensiero e della morale laica, per la ricerca di soluzioni condivisibili ai temi di emergenza etica e bioetica che mezzo secolo fa cominciavano a maturare in seno alla nostra società. Il Regno predicato da Gesù di Nazareth è l’utopia cristiana inerente ai destini dell’uomo e del mondo; ma esso è già presente, nel divenire della storia, ovunque si costruisca la fratellanza sulla base della giustizia. Prendendo coscienza di questa verità, il documento conciliare della pastorale Gaudium et spes (novembre 1965) recita al n. 29:
“Ogni forma di discriminazione dei diritti fondamentali della persona, sia in campo sociale che culturale, in ragione del sesso, dell’etnia, del colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere superata ed eliminata come contraria al disegno di Dio”.
Inoltre, per la prima volta nella storia del cristianesimo, un Concilio ecclesiale seppe riconoscere la dignità della coscienza morale umana. Al n. 16 della stessa pastorale leggiamo infatti:
“La coscienza è il nucleo più segreto dell’uomo; è il sacrario dov’egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità del cuore (…)”.
Il riconoscimento della sacralità della coscienza, da parte della Chiesa conciliare, costituisce l’atto più rivoluzionario del Vaticano II: tale riconoscimento, senz’altro propedeutico al diritto di esercizio della libertà di coscienza da parte della persona in ogni sua scelta di tipo etico, ha cancellato di colpo i dogmatici divieti imposti nei secoli dall’oscurantismo delle gerarchie.
Autonomia di giudizio, libero pensiero e libera coscienza: dove affonda le sue radici l’albero della laicità? Nell’illuminismo? Mi sentirei di escluderlo. I valori fondativi della laicità, così a lungo e duramente repressi, furono solo riscoperti “alla luce della ragione”. Bagliori di laicità autentica, sprigionati da quanti furono inquisiti e martirizzati per “eresia”, sono disseminati lungo l’intero percorso del pensiero umano.
Giordano Bruno e Galileo Galilei sono in assoluto le vittime più illustri del conflitto fra ragione e dogmatismo religioso che ha segnato la storia del pensiero. I processi intentati contro di loro dalla “santa inquisizione” sono arcinoti; così come la loro conclusione: il fondatore della scienza moderna, sotto la minaccia di tortura, fu umiliato ad abiurare le sue convinzioni scientifiche (1633); il filosofo- teologo, dopo un processo di sette anni, fu arso vivo a Roma (1600).
Un personaggio sconosciuto ai più, meritevole di essere annoverato tra i martiri della laicità, è Arnaldo da Brescia. Nato alla fine del secolo XI, fu il maggior interprete di un vasto movimento riformatore che avrebbe catalizzato il sorgere, di lì a pochi decenni, di tutti quei fermenti anticlericali e pauperistici che si proponevano di realizzare l’antico ideale cristiano della giustizia nella povertà. Avviato al sacerdozio, ricevette il diaconato; ma non è certo che fosse ordinato presbitero. Proprio negli anni in cui raggiunse Roma (1145), a imitazione di un fenomeno mitteleuropeo era sorta l’Italia dei Comuni, che rivendicavano una loro più ampia autonomia dal potere dei regnanti. Anche Roma si costituì a Comune: il popolo proclamò la repubblica sotto la guida della nobiltà più riformatrice, costringendo alla fuga il pontefice che, ferito nei tafferugli per il possesso del Campidoglio, si rifugiò a Orvieto. Arnaldo non lesinò il suo appoggio al nuovo potere costituito: per la profonda cultura, la fervida eloquenza e la sua opposizione alla “clericalizzazione” delle ricchezze, conquistò la fiducia del popolo e del basso clero, nonché la stima dei nuovi reggitori della cosa pubblica. Il suo ardente spirito riformatore lo spinse a battersi con foga contro il potere temporale dei papi, anelando un ritorno della chiesa alla purezza evangelica delle origini: inoltre, anticipando di sei secoli l’idea illuministica che il potere dei regnanti di certo non proviene da Dio, Arnaldo rafforzò nei Romani la coscienza che solo i popoli sono i veri depositari dell’autorità di eleggere prìncipi, re o imperatori chiamati a reggere gli Stati. Nel 1154 Federico Barbarossa, sceso in Italia per ricevere la corona imperiale dal nuovo papa Adriano III, sconfisse i repubblicani romani, fece prigioniero Arnaldo e lo consegnò al prefetto pontificio, che nel nome del papa la condannò a morte (1155). Decapitato, il suo corpo fu cremato e le sue ceneri disperse nel Tevere, per impedire la venerazione popolare delle sue spoglie. E questa, ahimè, è una triste pagine di storia, a perenne testimonianza che “la bontà dell’albero si conosce dai suoi frutti” (Lc. 6,43/ Mt 7,15).
Giovanni il battezzatore, profeta escatologico, percorreva la valle del Giordano predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Veniva così istituito un rito unico e definitivo, basato su criteri di “purità morale”, che sottraeva al clero di Gerusalemme parte del suo potere fondato su formali e costosi riti liturgici.
In tal modo, proprio dal figlio di un sacerdote, veniva messa in discussione l’istituzione stessa del Tempio: sia tramite il superamento delle abluzioni per il ripristino della purità personale perduta, sia attraverso la relativizzazione dei sacrifici offerti per l’espiazione delle colpe. La parola di Giovanni percorse tutta la Giudea fino alla Galilea, dove fu accolta da un Figlio d’uomo che andava interrogando se stesso per trovare la sua via. Gesù di Nazareth raggiunse Giovanni e si fece battezzare da lui nel Giordano, diventando suo discepolo. Quando le tagliole del potere furono fatte scattare su Giovanni, iniziò egli stesso a predicare; ma, a differenza del Battista che dal deserto aveva annunciato il castigo incombente, Gesù cominciò a proclamare nelle sinagoghe dei villaggi la sovranità di un Dio di misericordia, la “buona notizia” del suo Regno imminente e la salvezza vicina. In tal modo, predicando laddove la gente risiedeva, egli portò negli stessi centri dell’ebraismo la sua provocatoria contestazione nei confronti delle opprimenti prescrizioni e dei formalismi più irrazionali della Legge mosaica, diventando per la religione ufficiale non meno deviante e insidioso del Battista.
Il Gesù della storia, singolarità antropologica che seppe amare il prossimo più di se stesso, apparve sulla scena del mondo venti secoli fa: in una terra, allora come oggi, dove persino le pietre stillavano odio. Per il contenuto etico di una predicazione volta a riscattare l’uomo dallo sfacelo morale che da sempre ne condiziona l’agire, attraverso una dinamica di conversione individuale: “In verità, in verità ti dico: se uno non nasce di nuovo non può vedere il regno di Dio” (Gv. 3,3); per la fecondità del suo messaggio esistenziale, unica soluzione agli irrisolti conflitti economici che da sempre dilaniano le società umane: “Ecco, io do la metà dei miei guadagni ai poveri, e se ho frodato qualcuno restituisco quattro volte tanto. Gli rispose Gesù: Zaccheo, oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Lc. 19,8); per la coerenza estrema, tanto nella vita quanto nella morte, col suo universale messaggio d’amore: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv. 15,12); Gesù di Nazareth, unico Giusto di una stirpe di viventi spesso votati all’ infamia, è la “lampada sopra il moggio” che annuncia la risposta del suo Dio alla condizione di alienazione che impregna tutta la realtà umana, individuale e collettiva. La sua vicenda, che si snoda entro la trama della storia per finire nella più drammatica delle conclusioni, scuote la coscienza di ogni persona che “cerchi”. Il Gesù della storia, è un dato di fatto inoppugnabile, relativizzò il Tempio e la Legge, censurando la cieca obbedienza a molti precetti fondamentali del giudaismo: nessuna norma legalistica, per Gesù, può essere assolutizzata. Così, ai farisei indignati perché i suoi discepoli coglievano spighe di grano per sfamarsi nel giorno di sabato, quando nessun lavoro era permesso, Gesù replica con parole inaudite contro l’asservimento delle coscienze nel nome della Legge: “Non avete letto ciò che fece David quando si trovò nel bisogno ed ebbe fame? Come entrò nella casa di Dio e mangiò i pani dell’offerta che solo ai sacerdoti è lecito mangiare, e ne diede anche ai suoi compagni? Il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mc. 2,27). Il riposo sabbatico costituiva uno dei precetti più rigorosi dell’ebraismo; ma per Gesù il servizio per il prossimo ha la priorità sul culto e sulle Legge. Egli esige che la prescrizione religiosa, quando è contraria al bene dell’uomo, sia infranta; la relativizzazione del riposo nel giorno sacro alla divinità, sancita rigorosamente dal celebre detto di Marco appena riportato, sfociò in una sfida (le guarigioni operate di sabato) che procurò a Gesù l’ostilità di tutte le componenti religiose del giudaismo. Nei confronti del digiuno egli esibisce un atteggiamento di totale noncuranza; nei confronti delle donne, ritenute così poco affidabili da non essere nemmeno ammesse a testimoniare nei tribunali, Gesù manifesta una considerazione sorprendente: non è casuale la sua difesa dell’adultera, da lapidare secondo la Legge, che egli si rifiuta di giudicare, salvandole la vita con parole stupefacenti: “Chi fra voi è senza peccato, scagli la prima pietra contro di lei” (Gv. 8,7). Gesù è rigoroso circa il divorzio, contestando un ricorso troppo disinvolto alla Legge mosaica che permetteva il ripudio della moglie anche per futili motivi: “Chiunque caccia la propria moglie, eccetto in caso di fornicazione, la espone all’adulterio” (Mt. 5,32). Nel testo originale greco di Matteo, che ha l’esclusiva di tale clausola d’eccezione, la parola tradotta come “fornicazione” è porneia, termine che indica qualsiasi tipologia di disordine sessuale. Il personaggio Gesù descritto dai vangeli non recita mai la parte del profeta “ascetico”: in lui è totalmente assente lo zelo, manifestato da esseni e farisei, per l’osservanza esasperata dei 613 precetti della Legge. Egli mostra una totale indifferenza nei confronti delle norme di purità legali relative agli alimenti, dichiarati tutti “mondi”: “Non c’è nulla al di fuori dell’uomo, che entrando nell’uomo, lo possa contaminare (…) perché tutto ciò che entra nell’uomo non gli va nel cuore, ma nel ventre; per poi finire nella fogna” (Mc. 7,15). Siamo sicuri che Gesù, con queste parole, intendesse riferirsi solo alla purità di tutti i cibi e non piuttosto (e soprattutto) all’origine del male morale presente nel mondo? Il male non è un’oscura forza, malvagia e demoniaca, che trascende il mondo; ma è nel mondo. Alligna nei tortuosi meandri della personalità schizoide dell’uomo, nella sua naturale inclinazione al male: “Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal suo cuore, nascono tutte le cattive intenzioni” (Mc. 7,20).
Il suo atteggiamento verso i legami familiari, certamente scandaloso per la mentalità del pio Giudeo, manifesta un chiaro rifiuto della loro sacralità: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? (…) Chiunque ascolta la parola del Padre, e la mette in pratica, costui è per me fratello, sorella e madre” (Mc 3,31). Nei vangeli troviamo persino l’esortazione, rivolta a uno che voleva seguirlo, a non perder tempo nel presenziare alla inumazione del padre.
“Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?” (Lc. 12,57). Se queste parole sono state pronunciate in modo così esplicito – sembrerebbe provarlo il versetto quasi identico di (Gv. 7,24) “Non giudicate secondo le apparenze, ma giudicate con giusto giudizio!” – ci troviamo di fronte a un Gesù che esorta coloro che lo ascoltavano (fatto inaudito per gli apparati clericali di ogni epoca!) a consultare le proprie coscienze individuali nel loro percorso di ricerca dei valori spirituali, anziché aderire passivamente alle dogmatiche imposizioni del legalismo religioso. Autonomia di giudizio esercitato secondo il criterio della ragione critica e della libera coscienza: valori insopprimibili ispirati, in Gesù di Nazareth, da un sussulto di laicità autentica.
Di certo Gesù non era pervaso da ideali teocratici. Sognando il tramonto del “sacro” come strumento di potere egli auspica, nel modello di società da lui vagheggiata, la netta separazione tra il potere politico e quello religioso: “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” (Mc. 12,13).
Nel corso della sua evoluzione di uomo, maturata nel contesto di un legalismo religioso gravido di fondamentalismo, Gesù manifestò un atteggiamento di crescente biasimo nei confronti del clero di Gerusalemme. Molto prima della distruzione del Tempio (70), l’apostolo Paolo ebbe a scrivere in una sua Lettera (56): “E’ per la libertà che Cristo ci liberò, non fatevi dunque sottomettere di nuovo al giogo della schiavitù” (Gal. 5,1); ben evidenziando come Gesù, contestando l’assoggettamento delle coscienze ai dogmatici condizionamenti della Legge, avesse inteso riscattare Israele dal suo giogo opprimente. Unico in tutta la Palestina quale segno dell’unità del popolo ebraico, il Tempio era il centro vitale della nazione. Perfettamente inserito nella linea profetica di Israele, anche Gesù imputava alla casta sacerdotale la responsabilità per la mancata conoscenza, da parte del popolo, della volontà autentica di Dio: “Che mi importa dei vostri sacrifici? Sono sazio d’olocausti di arieti e del grasso dei vitelli; il sangue di buoi, agnelli e capri non lo gradisco” (Is. 1,11). A motivo di ciò non si può non ricordare il gesto eclatante di Gesù contro tale istituzione: la cacciata dei mercanti e dei cambiavalute che facevano commercio, nell’area del Tempio, degli animali da immolare. Tale gesto costituisce la più dura e provocatoria contestazione, da parte di Gesù, all’intero sistema cultuale giudaico dei riti sacrificali, che di fatto aveva trasformato il Tempio nel più grande ed efficiente mattatoio dell’antichità. Non solo: esso rappresentò, per le autorità del sinedrio (l’assemblea preposta all’amministrazione della giustizia), un vero e proprio atto eversivo nei confronti della stessa istituzione templare e della casta che proprio nel Tempio esercitava la funzione sacerdotale. Una conferma ulteriore del conflitto dirompente che oppose Gesù all’apparato clericale di Gerusalemme viene ancora da Paolo: “Quando giunse la pienezza del tempo Dio mandò il figlio suo, venuto all’esistenza da una donna, sottomesso alla Legge, perché fossimo riscattati dalla Legge” (Gal. 4,4).
L’annuncio del Regno che irrompe: il regno del solo Dio che può salvare l’uomo da se stesso. E’ questo il nucleo del messaggio di liberazione e consolazione profetizzato da Gesù. Il Dio da lui testimoniato propone a tutti i suoi figli un’offerta gratuita di salvezza attraverso una “conversione” che li renda di fatto tutti fratelli. La necessità più urgente per l’uomo è una vera e propria rivoluzione interiore, un cambiamento della sua mentalità che lo induca a cessare di adeguarsi, lupo fra i lupi, alla legge del branco; vanno recise le radici dell’egoismo e di quella volontà di potenza, così cara a Nietzsche, che induce l’uomo ad asservire l’altro a sé. Va praticata la regola d’oro, che appartiene a tutte le etiche, volta da Gesù al positivo: “Tutto quanto vorreste che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Lc. 6,11 / Mt. 7,12). Sembra dire Gesù agli uomini bisognosi di salvezza che anelano alla “vita eterna”: impegnatevi a realizzare l’utopica fratellanza già in questa vita, testimoniando il Regno nell’aldiquà; per poter accedere, avendo amato, al Regno escatologico dell’aldilà.
Gesù è portatore di un messaggio vivificante “nel quale sta la soluzione di tutti i problemi umani per il fatto autenticamente rivoluzionario che sostituisce all’etica perversa dell’homo homini lupus l’etica salvifica dell’homo homini Deus (…) L’accettazione della novità esistenziale del suo messaggio risolverà automaticamente, per conversione, quel dualismo mai risolto tra la ricchezza prodotta dal lavoro e il lavoro asservito al capitale che da sempre ammorba la convivenza umana” (Aldo Bergamaschi). La comunità dei discepoli che egli raccoglie attorno a sé ha la funzione di testimonianza: deve rappresentare la società ideale che Israele è chiamato a diventare; deve mostrare di essere una comunità alternativa che vive in modo radicalmente diverso rispetto al mondo circostante: un complesso di società a economia puramente capitalistica con la manodopera, quella di servi e schiavi, a costo zero. E’ una nuova famiglia di fratelli e sorelle, purificata da ogni tentazione nazionalistica, che rigetta la liberazione di Israele dal giogo romano con l’uso della forza. E’ una comunità riconciliata di uomini rinnovati capaci di attuare il superamento, nel nome dell’amore per il prossimo, dell’ideologia degli Stati nazionali sovrani e delle religioni istituzionalizzate che li supportano con le loro chiese benedicenti. E’ infatti rifiutata ogni struttura gerarchica di divisione classista ed è contestata la fondazione di nuove élite, mediatrici del sacro, finalizzate all’esercizio del potere con l’utilizzo di liturgie imbonitrici: “Ma tu, quando preghi, entra nella tua stanza e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt. 7,7).
Gesù di Nazareth: il profeta itinerante della Galilea venuto a predicare l’amore radicale fra gli uomini nel nome dell’umanità di Dio, per riscattarli dalla loro appartenenza ad una umanità corrotta, avida, violenta, in corsa verso l’autodistruzione. Solo il malizioso opportunismo di un apparato clericale, restaurato per esercitare il potere sulle coscienze, ha potuto trasformarlo nel fondatore di una nuova religione. Profeta definitivo dell’ebraismo, a Gesù era estranea la concezione veterotestamentaria di un “dio degli eserciti” affaccendato a insediare il “suo” popolo nella terra promessa; le radici della laicità affondano nella carismatica autenticità del suo personaggio. La sua condanna come eretico della Legge mosaica e bestemmiatore non fu certamente casuale.
In Gesù di Nazareth, uomo di fede e modello di umana perfezione per quanti lo amarono, non baluginava una fiammella tremolante; ardeva un falò. Il Dio dal volto umano da lui testimoniato non è solo il Padre misericordioso di tutte le sue creature; è anche il Dio delle Scritture che volle stabilire un suo privilegiato rapporto con l’uomo, “creato a sua immagine e somiglianza”: raziocinante, cosciente e libero. Ma tali attributi non definiscono forse quei valori da cui l’albero della laicità, con le sue radici, sugge la sua linfa vitale?
Quell’Assoluto trascendente che chiamiamo Dio, qualora veramente esistesse, non sarebbe identificabile anche come Assoluto della Laicità?