Chi sei veramente tu, frate Francesco?
Articolo del nostro iscritto Gianni Benevelli (iniziativa laica.it 01.04.16)
(MISSIVA A MESSORI)
Le differenti forme di vita presenti sulla Terra, che si sono evolute nel tempo profondo, sono state e sono tuttora così numerose da sfidare ogni immaginazione. Tale variabilità è però caratterizzata da una specifica peculiarità: all’interno di ciascuna specie biologica ogni individuo è “diverso” da ciascun altro individuo appartenente alla medesima specie. Tale singolare “unicità” caratterizza anche la specie dell’homo sapiens: il sottoscritto, come si colloca nel variegato, palpitante mondo dei personaggi che costellano l’umanità vivente?
Sono forse un deplorevole laicista e un pervicace anticlericale che non disdegna, per partito preso, di essere tale? Non credo proprio: posso essere scomodo e irriverente, non ho difficoltà ad ammetterlo; questo mio difetto è però compensato da una specifica tipologia del mio carattere: dire (e scrivere) sempre, con la massima onestà intellettuale possibile, esattamente come la penso. Il fatto è che mi considero un libero pensatore; e, come tale, coerentemente e presuntuosamente mi compiaccio di comportarmi.
Non sono un filosofo, né tantomeno un teologo; i documenti che vado scrivendo sono unicamente il risultato di un bisogno di verità riguardo a quelle problematiche che costituiscono, da sempre, il problema di fondo dell’uomo. Sto scrivendo principalmente per me stesso, vincendo la tentazione di rimuovere il problema di Dio, dopo una ricerca storica ed esegetica alla quale mi sono dedicato per più di un decennio.
E così, parlando di fede, di teismo e di ateismo cercando di accantonare ogni idea preconcetta, mi sono paradossalmente trovato, come laico, a disquisire di Dio, il cui enigma è inestricabilmente intrecciato al mistero dell’esistenza. Quel dio del quale i supremi teologi del magistero ecclesiale ci hanno dogmaticamente indottrinato sulla sua natura; quello stesso dio che i suoi “Rappresentanti in Terra”, nei sedici secoli di storia da loro governata, hanno monopolizzato e strumentalizzato politicamente per l’esercizio del loro inebriante potere.
A parte lo sconcerto per una chiesa-istituzione che ha fallito la prova del potere e che ha clamorosamente disatteso la funzione d’esser promotrice di una proposta di conversione autentica al Messaggio evangelico di Gesù, cosa mi rimane dentro, alla fine di questo mio “cercare”? La risposta è: sono approdato ad un agnosticismo ottimistico che volge timidamente alla fede; e non ad un pessimismo agnostico che è anticamera di quell’ateismo che può condurre al nichilismo. In sintesi: pur senza fideistiche certezze, accantonato il dio delle religioni, sono portato a credere nonostante la chiesa. Infatti: se il cosmo creativo, le stelle, la vita, la coscienza del “sentire” umano con la sua urgenza di giustizia hanno un senso (e secondo me tutto ciò che è frutto dell’evoluzione è possibile che un senso ce l’abbia), Dio esiste; e l’uomo, morendo, morirà in Dio. Se tutto ciò che esiste si perderà in un’apocalisse di insensatezza, Dio non esiste; e l’uomo, morendo, morirà nel nulla. Ma infine, (proprio questo è il punto!) esiste il nulla?
Il vuoto cosmico. La totale inesistenza di qualsiasi forma di energia, di materia, di radiazione. Il buio più completo esteso a tutte le dimensioni dello spazio e del tempo. La stessa non esistenza dello spaziotempo. Un perpetuo, immutabile, tenebroso abisso senza confini: lo zero assoluto, il nulla eterno. In altre parole il non essere. Ma il non essere non sussiste, perché, inspiegabilmente e paradossalmente, esiste l’essere.
Tutte le stelle del firmamento, contemplate in una notte limpida, ne manifestano certamente l’aspetto più grandioso ed eclatante; ma è l’umanità vivente, col suo bagaglio di miserie e di emozioni, a costituirne l’essenza più palpitante.
Contemplando la volta celeste gli intelletti umani più riflessivi, meno condizionati dalla superstizione che trae origine dall’ignoranza, sono da sempre pervasi da un senso di stupore e di sgomento di fronte alla considerazione dell’ignoto e dell’inconoscibile.
Il vento dello Spirito soffia dove vuole e voi ne udite il sibilo;
ma non sapete da dove venga, né dove vada. (Gv.3;8)
Negli infiniti spazi dell’universo l’uomo è solo con la sua angoscia esistenziale: non sa da dove viene, dove va, chi è egli stesso; né conosce qual è, se c’è, la finalità del suo individuale esistere, che si esplica in un brevissimo istante d’eternità nell’immensità del cosmo. L’imperscrutabile destino dell’uomo e tutti i suoi accorati appelli ad un ipotetico dio nascosto che rimangono senza risposta: il Dio che è, non è il dio delle confessioni religiose: è la fonte di tutte le singolarità; è il Mistero, insondabile per la ragione, che è giustificazione dell’esistenza dell’essere.
Carissimo Paolo, faccio veramente tanta fatica (razionalmente!) a fare mia la certezza che mente, sentimenti e tensione morale presenti nell’uomo siano solo il frutto di una fortuita serie illimitata di accadimenti, incidenti casuali di percorso entro un processo evolutivo ascendente a partire da un plasma di particelle. Inoltre: su certe problematiche che non ammettono soluzione umana, alla vera laicità non appartengono “verità certe” di stampo fideistico e dogmatico, né negazioniste né non negazioniste: relativismo, non-certezze e dubbio sono i mattoni del pensiero laico più autentico.
Vittorio Messori deve la notorietà al meritato successo del suo bel libro Ipotesi su Gesù. Il giornalista - scrittore può essere considerato una delle voci laiche più autorevoli di quegli apparati ecclesiastici da lui devotamente riveriti come “ giusta gerarchia evangelica”.
Di tutte le questioni interne alla Santa Sede che toccano la “sfera del Sacro”, certamente egli se ne intende: va dunque riconosciuta, a chi è attento osservatore della diplomazia religiosa con cui le gerarchie gestiscono il potere ecclesiale, la validità della sua oculata analisi sulla stessa. Dalla sua prefazione al volume Il silenzio di Dio di Sergio Quinzio:
«Anni di riflessione mi hanno convinto del fascino, ma anche dell’inadeguatezza, del pensiero protestante che procede sempre per aut-aut: o l’uno o l’altro. O la fede nel dogma rivelato o la ragione del cristiano e la sua libertà; o la teologia della croce o quella della gloria; o la giustificazione piena o il peccato senza scampo. Al contrario, il progredire del pensiero cattolico procede per et-et. Lo riconobbe anche Pascal, che vide il corretto pensare cattolico soltanto nel “far professione di due contrari”. Che è l’autentica posizione cattolica: l’unione degli opposti, la tesi e l’antitesi che cercano una sintesi, anche se spesso precaria e dilacerante. In teoria, lo so bene: in pratica la Chiesa, chiamata a testimoniare insieme l’umiliazione di Gesù e la gloria del Padre, ha talvolta nascosto la prima e messo in risalto la seconda; ma le “deviazioni concrete” non mettono in discussione la validità del principio».
È del 2000, anno giubilare, la beatificazione contemporanea di Pio IX (sic!) e di Giovanni XXIII: il primo, alla guida del Concilio Vaticano I, è il pontefice che nelle sue Istruzioni avvallò la schiavitù e che sancì il dogma dell’infallibilità papale (1870); il secondo, convocando dopo 92 anni il Vaticano II, metteva esplicitamente in discussione l’anacronistico assolutismo di tale dogma:
“La mia persona conta niente; è un fratello che parla a voi ”.
Siamo decisamente all’apoteosi della diplomazia dell’et-et.
Ma tale collaudata strategia, impiegata dalla curia romana e dal magistero ecclesiale per gestire il dissenso interno alla gerarchia, non è in contraddizione col precetto evangelico in (Mt. 5,85)?
«Sia invece il vostro parlare: sì, sì; no, no;
perché il di più viene dal maligno»
Il dissenso, nei Sacri palazzi vaticani, è cosa antica; conservatori e progressisti, al suo interno, si fronteggiano da sempre; ma in quest’ultimo mezzo secolo, da quando la Chiesa-comunione prefigurata dal Concilio Vaticano II non si è attuata e l’utopica speranza di una sua “umanizzazione” è andata delusa, il dissenso è diventato una frattura veramente dilacerante, forse insanabile. Da un lato le eminenze più tradizionaliste sostenitrici di una restaurazione postconciliare; dall’altro quanti contestano tale involuzione, vedendo in essa il tradimento delle aperture conciliari sancite dal Vaticano II.
Da qui la domanda: tale principio strategico con cui è governata la rotta della chiesa postconciliare nel mondo, non ha forse finito per autenticare col sigillo della sacralità una sostanziale “teologia politica dell’ambiguità” la cui validità, alla lunga, è tutta da dimostrare?
Anche papa Benedetto XVI non ha disdegnato di aderire, in molti suoi interventi, alla dinamica ipercollaudata dell’et-et: il pontefice che ha scosso la cattolicità con la sua “abdicazione”, facendo appello alla conciliabilità tra fede e ragione nello spirito del Vaticano II, non ha mancato di celebrare a più riprese la sacralità della famiglia, cellula della convivenza, come società naturale fondata sul matrimonio (primo et). Ma poi nel corso della sua visita pastorale a Pompei, terra di camorra, egli ha di fatto legittimato, col silenzio, la secolare prudenza della diplomazia vaticana nei confronti della criminalità organizzata: non ha saputo esplicitare alcun giudizio di condanna per quanti succhiano spietatamente la linfa vitale di tanti giovani; dimenticando, quale strenuo difensore della “famiglia”, che la stessa esplode quando il lavoro manca e la droga dilaga; non ha inteso proferire una sola parola di umana solidarietà per quei parroci-coraggio lasciati soli, sulle barricate, a contendere ai malavitosi i giovani e gli adolescenti reclutati ai fini di spaccio (secondo et.).
Sempre Benedetto XVI, nell’epoca che vide il risorgere dei fondamentalismi, riprese il messaggio del suo predecessore invocando pace e tolleranza (primo et); ma poi, rimossa la dura condanna espressa da papa Wojtyla morente per la sanguinosa “guerra preventiva” che stava per essere scatenata sulla base di consapevoli menzogne, toccò l’apice del suo apostolico pontificato andando a festeggiare il suo compleanno e a pregare per la pace a casa del più screditato Presidente di tutta la storia degli Stati Uniti d’America (secondo et).
Lo sconcerto per il continuo “far professione di due contrari” (per dirla alla Pascal) non finisce forse per assestare una formidabile picconata alla sofferta fede di quanti avvertono di prediligere coerenza e linearità?
«La Chiesa ha la memoria lunga. E’ dal meeting interreligioso del 1986 che Ratzinger aveva un conto da saldare con i frati di Assisi, per gli eccessi della prima giornata di preghiera in cui una basilica cristiana era stata ceduta a culti pagani. Ora le cose sono a posto». Questo l’attacco di un articolo di Messori giornalista (la Stampa, 22 novembre 2005) sul “commissariamento” pontificio del convento di S. Chiara in Assisi da parte dell’ex inquisitore Ratzinger che, appena diventato papa, «salda il conto 19 anni dopo» per ristabilire l’ortodossia e frenare l’ecumenismo francescano riportando santuario e iniziative dei frati sotto il controllo della diocesi e dell’episcopato. Fin qui nulla di nuovo sotto il sole: semplice “normalizzazione” da parte di un pontefice che, se da un lato insisteva ad auspicare il dialogo fra chiesa e laicato facendo appello alla fede e alla ragione, dall’altro ne approfondiva le divisioni ritorcendo gratuitamente sulla scienza le principali critiche che avrebbe dovuto rivolgere all’istituzione che rappresentava: di essere “arrogante, avida e di volersi sostituire a Dio”.
Un papa che, per compiacere quanti sono “sedotti” dal sacro, riprese a celebrare la messa col vecchio rito liturgico in lingua latina, la schiena rivolta ai fedeli; il senso di questa (sia pur formale) sua scelta regressiva è molto chiaro: ribadire la sacrale autorità della gerarchia e testimoniare esplicitamente l’epilogo della restaurazione post-conciliare, nell’illusione di poter sfatare quanto profetizzato da Gesù: il Tempio sarà lasciato deserto “e gli uomini adoreranno in Spirito e Verità» (Gv. 4,24)
Continua poi Messori nell’articolo sopraccitato:
«La deriva sincretista del dialogo interreligioso andava attenuata; il tradimento della figura storica di Francesco andava corretto». Vediamo con quali parole egli “ci illumina” sulla reale figura storica del Poverello di Assisi: «I frati hanno abusato del cosiddetto spirito di Assisi. In realtà loro venerano e diffondono illegittimamente un santino romantico di derivazione protestante, ossia il San Francesco del mito, uno scemo del villaggio che parla con lupi e uccellini e dà pacche sulle spalle a tutti. Una vulgata falsa, che ne svilisce il messaggio. Il Francesco della storia, infatti, è il figlio più autentico della Chiesa delle crociate. Non era assolutamente pacifista. Alla V crociata San Francesco partecipò come cappellano delle truppe, mica da uomo di pace. Cercò in ogni modo il martirio per riconquistare la Terra Santa e cadde in depressione quando i crociati persero. Dal sultano non ci andò per dialogare ma per convertirlo (…) E non era nemmeno animalista. Nel Cantico delle creature gli animali non sono mai menzionati».
Credo che basti: è questo il nucleo dello sconcertante “deliramentum” con cui il “cristiano-cattolico” Messori intende “normalizzare” la figura del più autentico fra i santi dell’Ecclesia – popolo di Dio. Tali parole, offensive non solo per Francesco ma per lo stesso Cristo che Francesco imitò, risuonano blasfeme come una bestemmia urlata che rintrona sotto le austere navate d’una cattedrale.
Cominciamo col vedere com’era l’istituzione ecclesiale romana al tempo di Francesco, quella chiesa delle crociate di cui, secondo Messori, il santo era il figlio più autentico. La sua credibilità, ai minimi storici sul piano spirituale, era inversamente proporzionale al potere temporale da essa esercitato: il papa era all’apice della potenza come “arbiter mundi”; oltre la metà delle terre coltivate costituivano beni ecclesiastici; poteri e privilegi dei chierici, che avevano ricevuto piena legittimazione storica entro una struttura con esplicite mire di dominio, erano stabiliti dal Codice canonico. Non meraviglia quindi che la chiesa, all’epoca, più che a evangelizzare fosse occupata a gestire e a difendere i suoi beni. Non è casuale, proprio a cavallo fra il XII e XIII secolo, il sorgere in Europa di numerosi movimenti che la chiesa delle gerarchie si prodigò di circoscrivere e controllare.
Valdesi o “Poveri di Lione” (1176), Domenicani o “Frati predicatori” (1206), Umiliati o “Poveri Lombardi” (1201) si proponevano di realizzare l’antico ideale cristiano della giustizia nella povertà evangelica sostituendosi ad un clero, in tutt’altre faccende affaccendato, per portare il Messaggio alla gente parlando la lingua del popolo. L’Ordine dei “fratres minores” fu fondato da Francesco d’Assisi (1210). All’inizio, non certo casualmente, egli riunì intorno a sé 12 confratelli per predicare il vangelo nell’amore di “Madonna Povertà”, rinunciando ad ogni proprietà sia individuale che comunitaria. Vestiti di saio come la gente più povera dell’epoca, i frati “minori” si procuravano il sostentamento con il “vile” lavoro manuale (l’attività prevalente era la restaurazione di antiche chiese ed edifici) e, solo nel caso di estrema necessità, con la questua. Riuniti i primi compagni attorno al suo programma di apostolato, si recò a Roma (dicembre 1209) per sottoporre al papa Innocenzo III una prima Regola dell’Ordine, ottenendone l’approvazione orale.
Il suo farsi povero tra i poveri, cioè tra quanti vivono costantemente una situazione di dipendenza, di emarginazione, di frustrante umiliazione perché privi di mezzi economici, relazioni influenti, dignità personale e che non hanno possibilità di elevarsi se non con l’aiuto altrui, acquistò una singolare rilevanza sociale nel mostrare coi fatti il volto di un’Ecclesia di poveri, per i poveri e con i poveri. Francesco guardò ai poveri con gli occhi del povero, testimoniando il mistero dell’umiltà di Dio.
La chiesa clericale, detentrice nel sistema feudale vigente della massima egemonia (economica, politica, religiosa), era condannata ad esercitare il potere secondo la logica di ogni potere; vittima, essa stessa, di quella cupidigia dell’avere che ne svelava l’intrinseca, permanente contraddizione: l’essere portatrice del Messaggio inerente all’utopica realizzazione del Regno e l’essere lontanissima, nella realtà, dal poterne tentare l’attuazione.
«Anche Francesco, da giovane, aveva provato a impersonare il lupo che si copre con la veste dell’agnello; il lupo domestico che mangia a orario in modo forbito, il lupo ben vestito: suo padre se ne intendeva di “stoffe”. Non è dunque un “teorico”; è uno che sa, perché l’ha misurata, la tristezza d’un egoismo. Lasciandosi catturare solo da Cristo, uscì “dal mondo” per essere “un pazzo nel mondo”, sentendosi chiamato da Dio a camminare lungo la via della semplicità e a testimoniare il progetto evangelico di fratellanza universale: essere poveri e umili per essere pienamente fratelli» (Bergamaschi).
Tenerezza e compassione sono alla radice della profonda umanità di Francesco. In lui la povertà radicale è sorella dell’umiltà che tutto sopporta in perfetta letizia, allorché l’”io” si è spogliato di ogni residua volontà di autoaffermazione: «L’animo di Francesco si strugge davanti ai poveri, non potendo sopportare di vedere qualcuno più povero di lui» (1 Celano 76). La sua novità non sta nel vivere la radicalità evangelica: questo ideale era vissuto già dai movimenti pauperistici contemporanei e anteriori a lui. La sua originalità va colta nella concezione dell’ominizzazione di Dio: intesa come sua umiliazione e identificazione con il più misero, essa lo rende «inebriato d’amore per Cristo» nel quale Dio si è fatto nostro fratello in povertà e umiltà. «In Francesco si produsse l’identificazione estrema di un uomo con il suo archetipo» (Leonardo Boff).
L’universo di Francesco è segnato «da tenerissimo affetto di devozione per tutte le creature e le cose che sono nel mondo» (2 Celano 134) che sono sentite come sorelle di una stessa famiglia. Ai frati giardinieri che coltivavano verdure e ortaggi chiedeva che negli orti fosse riservato un posto per le erbe aromatiche «che cantano richiamando il ricordo della soavità eterna» e un angolo libero anche per le erbe infestanti che cantano anch’esse «quanto è bello il Padre di tutto il creato» (2 Celano 165). Tale linfa spirituale gli derivava dalla volontà ininterrotta di spoliazione e rinuncia al volere possedere e sottomettere le cose, perchè sentiva di non stare sopra di loro, ma allo stesso livello di ogni creatura: per questo poteva udire le loro armonie essenziali e celebrarle. Il suo tenero sentimento di fraternità è il risultato della sua riconciliazione con la natura e il mondo:
«Per l’amichevole unione che Francesco aveva stabilito con tutte le cose, sembrava fosse tornato al primitivo stato di innocenza mattinale» (Fra’ Bonaventura).
L’Ordine francescano, per esplicita volontà del Santo che considerava il cattolicesimo l’unica fonte di dottrina teologica, operò con continuità nel rispetto formale e nella totale sottomissione alla curia romana. Nel suo testamento del maggio 1226 possiamo leggere: «I miei frati siano fedeli sudditi di prelati e chierici della santa madre romana Chiesa». Si potrebbe però obiettare che il realismo di Francesco (che intellettualmente non era certo uno sprovveduto) e i ponderati consigli dei confratelli iniziali (dei quali ben quattro, per seguirlo, avevano lasciato l’insegnamento accademico all’Università di Bologna) lo abbiano indotto a tale ossequioso riconoscimento del primato della cattolicità e del carisma del “Signor Papa”, vista l’aria politico-religiosa che tirava a quei tempi. Del resto è inconfutabile il fatto che qualora l’Ordine appena fondato fosse sorto in opposizione alla chiesa, sarebbe stato inesorabilmente stroncato sul nascere dalla reazione clericale, se non altro per la vicinanza geografica della regione umbra con Roma.
Ma gli storici non concordano con tale ipotesi opportunistica messa in atto dal poverello di Assisi: egli visse la sua vocazione non per assecondare il disegno clericale del potere, ma come sincero servizio all’Ecclesia-popolo di Dio mostrando, nei fatti, di vivere l’antitesi del progetto dominante della casta dei chierici. In tal modo, umiliando se stesso nel dichiarato asservimento ad un’istituzione ch’egli pur vedeva inesorabilmente corrotta, seppe indicare ad una chiesa spiritualmente “in rovina” l’unica via percorribile per un suo riscatto morale, mostrando e dinamizzando quel che la chiesa stessa dovrebbe essere: umile e spoglia a imitazione di Cristo. «Io ho fatto la mia parte, la vostra ve la insegni Cristo» (2 Celano 162).
Laico come Gesù di Nazareth fino al midollo, Francesco sempre rifiutò il suo inserimento nella struttura clericale vigente: la sua accettazione del diaconato, per poter portare al popolo la novità evangelica, è questione storicamente controversa. Nel suo Ordine, sacerdoti e laici sono in perfetta parità: i ministeri ai quali i primi sono preposti non fondano alcun privilegio. Vi è un documento inoppugnabile che sigla il contrasto fra l’ecclesiologia del papa e quella di Francesco: è una lettera datata ottobre 1216 che costituisce la prima testimonianza storica in assoluto riguardante l’Ordine francescano scritta da Jaques da Vitry, arrivato a Perugia proprio nei giorni successivi alla morte di Innocenzo III per essere consacrato vescovo da Onorio III. La narrazione è impietosa:
«Trovai Papa Innocenzo morto, ma non ancora sepolto. Nella notte avevano spogliato la sua salma di tutte le preziosità, lasciando il suo corpo quasi nudo e già in putrefazione nella chiesa. Conobbi allora, con piena fede, quanto sia breve la gloria ingannatrice di questo mondo (…) Avendo poi frequentato per qualche tempo la Curia, vi ho trovato parecchie cose contrarie al mio spirito. Tutti erano così occupati nelle cose temporali e mondane, che appena permettevano che si parlasse di cose spirituali. Ho trovato però, in quelle regioni, una cosa che mi è stata di grande consolazione: persone d’ambo i sessi, chiamati frati e sorelle minori, che vivono secondo la forma della Chiesa primitiva (…) Credo proprio che il Signore, prima della fine del mondo, voglia salvare molte anime per mezzo di questi uomini semplici e poveri, per svergognare i prelati divenuti ormai cani muti».
L’inconciliabilità dell’ecclesiologia di Francesco con quella del nuovo papa è testimoniata da fatti storici incontestabili: egli non corre a Orvieto, nel 1217, per incontrare e fare cassa di risonanza alla predicazione di Onorio III, che aveva incitato per lettera tutti i vescovi alla V crociata (1217-1227). Il maggio dello stesso anno Francesco manda i suoi frati in Europa, Tunisia e Siria a predicare la penitenza e la pace, per presentare una visione “altra” del cristianesimo. Da parte sua decide di andare in Francia a contattare i movimenti pauperisti ostili alla crociata; ma è fermato a Firenze dal cardinale Ugolino, legato pontificio in Toscana.
«Lo scandalo, per Francesco, non è l’esistenza di religioni diverse; ma il fatto che quanti credono in Dio abbiano concezioni così contraddittorie sulla convivenza da teorizzare le reciproca distruzione» (Bergamaschi). Nel giugno 1219 Francesco lascia l’Italia per l’Oriente, «laddove il cristianesimo si era trasformato in una “religione armata”, per offrire ai “nemici di fede” un’immagine tersa della propria verità». Fra’ Bonaventura scrive che il proposito di Francesco è quello di «favorire, spargendo il proprio sangue, l’espansione della fede in Cristo». All’epoca dell’assedio di Damiata (agosto 1219) Francesco si trova dunque con l’armata cristiana. Ma mentre i crociati erano là per motivi di conquista, scrive Tommaso da Celano, egli era là nel tentativo di ricomporre la fraternità universale.
Francesco non è affatto integrato, né può esserlo, nell’esercito crociato; è lì a testimoniare i valori universali dell’amore cristiano. Non svolge il ruolo di cappellano militare; contesta i piani di battaglia dei capitani crociati, predicendo loro la sconfitta. Nella sua Chronologia Magna fra’ Paolino scrive che il Santo, nauseato dalle crudeltà dei “cristiani” dopo la presa di Damiata, lasciò il campo crociato per recarsi dal Sultano, dopo aver chiesto il permesso al cardinal Pelagio: un crociato spagnolo convinto di essere stato designato dalla Provvidenza a debellare Maometto nel nome del Dio degli eserciti.
«Da un lato un cristianesimo veterotestamentario che va cercando nelle Scritture la giustificazione delle proprie imprese storiche, dall’altra il tentativo di spezzare ogni dualismo razzista per ricondurre gli uomini al dialogo dell’unità. Da un lato la certezza che tutto andrà bene quando il nemico sarà distrutto, dall’altro la convinzione che non esistono “nemici”, ma peccatori da salvare ovunque, in chi non può concepire alcuna guerra condotta all’insegna del sacro. Si ripete la scena del lupo di Gubbio: da una parte i lupi civilizzati, dall’altra il lupo allo stato brado; ma lupi tutti. L’incontro di Francesco e di frate Illuminato con Kamel (è il nome del Sultano) è il tipico incontro di un cristiano con la storia. E’ chiesto loro se vogliono entrare nel suo blocco; ma per Francesco un blocco vale l’altro. Non sono mandati da nessuno, neanche dal Papa, giacché anche lui è inserito in un blocco. Sono inviati da “Dio altissimo” per indicare a lui, Kamel, e al suo popolo la via della salvezza tramite il vangelo. Francesco discorre di verità e di errore, non di vittorie e sconfitte; il dibattito è coscienziale, non storico. Dietro il Sultano sta una “religione” con i suoi preti, dietro Francesco sta direttamente Cristo. Il confronto si riduce ad una scommessa: se Kamel esita fra la fede in Cristo e la legge di Maometto, egli, Francesco, entrerà con i preti del Sultano in un braciere ardente e lui, Kamel, saprà qual è la più santa tra le due fedi. Kamel dubita che uno solo dei suoi sacerdoti voglia esporsi al fuoco, giacché il più eminente si eclissa all’udire la proposta (…) Il Sultano non aderisce alla scommessa, ma resta colpito dal livello cui è posta. La risposta della religione istituzionalizzata arriva glaciale dai “dottori” musulmani, non diversi dai “dottori” dell’inquisizione: “Ti comandiamo in nome di Dio e di Maometto che tu faccia costoro decapitare, in quanto la legge ordina di mozzare la testa a chiunque ardisca predicare contro di essa”. Kamel, forse non contaminato dalla “passione religiosa” e ancora in grado di percepire l’incongruenza concettuale di un Dio che ordina uccisioni, non ritenendo ragionevole ricompensare in quel modo chi s’era messo a rischio di morire per salvargli l’anima, congedò il Santo in amicizia» (Bergamaschi).
Verso la fine della vita, quando l’Ordine francescano si era largamente diffuso e la sua direzione spirituale gli era ormai sfuggita di mano (gli storici parlano di almeno 5mila frati), il suo fondatore fu segnato da un periodo di cupa depressione per il corso che il movimento, sempre più organizzato, aveva preso. Francesco si era ormai reso conto che esso andava via via perdendo il suo ideale originario per la graduale opera di “addomesticamento” da parte di un “cristianesimo” istituzionalizzato e cinico che costantemente tentava di catturare il suo universalismo, per utilizzarlo al fine di affermare la propria eminenza. A proiettarlo nella “buia notte dell’anima” fu la constatazione che “la Verità evangelica sta sempre e solo dalla parte dell’utopia, mai con la brutalità della storia”; fu la presa di coscienza che, se pure una singola persona la si può convertire, una struttura di potere assoluto intrecciata ad altre strutture di potere non è riformabile in senso evangelico; fu l’intimo dilemma se il suo progetto di radicalità non fosse realmente una vera, utopica follia inadatta a venire proposta agli uomini. La lenta, successiva clericalizzazione e “normalizzazione” dell’Ordine francescano nei secoli, fino ai giorni nostri, è frutto del suo compiuto “inserimento” nella struttura gerarchica che è intrinseca al potere ecclesiale.
La caratteristica più spiccata della spiritualità francescana è la gioia, che nasce da una profonda fede nell’amore compassionevole e nella misericordia di Dio. Tutte le creature da lui esaltate costituiscono il mezzo attraverso cui il poeta mistico esprime quel che gli urge dentro: inneggiare all’unione cosmica del tutto con l’Altissimo. Frate Sole e sora nostra madre Terra; sora Luna e le clarite Stelle; frate Vento, frate Focu e sora Acqua, umile et preziosa et casta; e infine la Morte: l’annientamento del corpo, di fronte a cui l’enigma della condizione umana raggiunge l’apice, che da spettro minaccioso diventa sorella, passaggio necessario per una nuova e definitiva rinascita:
Laudato sii, mi’ Signore
Per sora nostra Morte corporale
Da la quale nullo homo vivente può scappare (…)
«Francesco assume la morte come un bene, come un “elemento” su cui si può scrivere una poesia. Il “questa notte morrai” è una sassata per lo stolto; ma per Francesco tutti i dualismi sono privi di senso. Egli assume la morte come assume la foglia di prezzemolo per profumarsi la bocca. La morte è “sorella” e, come l’acqua, elemento “umile che dell’Altissimo porta “significatione”. Silenzio per favore! Quei due cantori ingaggiati da Francesco sul sagrato della Porziuncola non sono rozzi improvvisatori di funebri lamenti. Stanno mettendo in versi il Vangelo!» (Bergamaschi).
Ancora:
Laudato sii, mi’ Signore,
per quelli che perdonano per lo tuo amore
et sostengon’ infirmitate et tribulatione (…)
Solo un uomo che ha smarrito la sensibilità di poter apprezzare un gioiello di tale levatura poetica, può permettersi di propinare ai suoi lettori l’immagine falsa di un Francesco guerrafondaio, “figlio autentico della chiesa delle crociate”.
Messori non è certo il solo, fra gli “intellettuali” che con i loro editoriali contribuiscono a formare la pubblica opinione, a certificare la sua “devozione” nei confronti della gerarchia. Corsera del 27 marzo 2006: un articolo di Francesco Alberoni, sociologo tanto insigne quanto profondo, esente da ogni tentazione d’adulazione, merita di essere proposto al lettore in versione pressoché integrale.
«Viviamo in un’epoca di grandi manifestazioni scenografiche: l’unica istituzione religiosa, che ne ha capito la potenza di comunicazione simbolica, è stata la Chiesa cattolica di Papa Wojtila (…) Forse nel suo pontificato si sono ulteriormente svuotate le chiese, ma si sono riempite le piazze di fedeli e non fedeli che partecipano ad una liturgia nuova (…) E Papa Ratzinger, coltissimo, delicato, stupendo scrittore che fa riscoprire significato e parole chiave del Vangelo, usa la piazza di S. Pietro, come cattedrale per folle immense, a rappresentare una Chiesa unita, certa di sé, con le braccia aperte sul mondo (!) C’è un solo punto che in queste manifestazioni sacre mi lascia un po’ perplesso: il modo in cui sono vestite le religiose. Nel passato, senza tornare al Medioevo, non solo le badesse ma tutte le altre suore avevano un abbigliamento solenne, quasi da regine, che ne indicava il ruolo sacro (…) Questo non si vede più. Mentre i sacerdoti in queste celebrazioni hanno paramenti imponenti, le suore si vedono tra il pubblico con abiti molto poveri: non sono presenti con tutta la solennità che l’ordine religioso meriterebbe»
La piazza, dunque, come palcoscenico liturgico: scenografia religiosa di festosi “papa-boys”, fotocellulare in mano per immortalare il giubilo, che manifestano ossequio senz’essere intimamente coinvolti.
La piazza gremita di “fedeli riverenti” che hanno equivocato Colui che sognò il tramonto del “sacro” come strumento di potere, che profetizzò la fine della “casta” e del Tempio mostrando agli uomini l’amore come unica via di accesso a Dio e che pagò il suo annuncio finendo inchiodato ad un legno.
La piazza gremita di folla devota e osannante come rinnovata celebrazione, da parte delle gerarchie clericali, della secolare “teologia della gloria”: con la croce elevata a simbolo di folclore religioso e con un Cristo ariano dagli occhi azzurri, i capelli biondi e la spada nel pugno, assiso vittorioso sul suo trono temporale.
Il giorno in cui papa Ratzinger, valutando carenti le capacità suggestive e imbonitrici del pomposo e solenne tripudio di costumi liturgici, avesse deciso di commissionare al sarto del “mago” Otelma un nuovo abbigliamento, avremmo visto tutta la schiera dei cattolici più integralisti e degli atei devoti di questo Belpaese fare a gara per essere i primi ad andare a baciargli l’anello.
Gianni Benevelli
P.S. Il materiale bibliografico che ha permesso l’elaborazione di questo documento è tratto dal testo inedito di Aldo Bergamaschi Francesco operatore di pace, che il suo autore mi consegnò, con la raccomandazione di farne buon uso, il giorno in cui gli sottoposi l’articolo-intervista di Vittorio Messori che segue.