A chi appartiene la nostra vita?
Articolo del nostro iscritto Gianni Benevelli (iniziativa laica.it 09.04.16)
A chi appartiene la nostra vita?
E’ una bellissima domanda alla quale, almeno per me, non è facile dare risposta. Non è facile a causa del mio inquieto agnosticismo irrisolto, che tuttavia non volge all’ateismo né tanto meno al nichilismo, sulla fede nell’esistenza del Dio gesuano delle Beatitudini. Esiste o non esiste il Dio testimoniato da Gesù di Nazareth, uomo e profeta? Onestamente, non ho risposte certe da dare; posso tutt’al più dire: parliamone. Ecco quindi che non sono in grado di sapere a chi appartenga la mia vita: se a Lui o solo a me stesso.
Una cosa, però, so con certezza: la mia vita non appartiene al dio delle religioni. Certamente non appartiene all’ambiguo “dio degli eserciti” (Jahwèh o Elohim) dell’Antico Testamento, che, Santo nella giustizia, è implacabile nelle sue vendette; né appartiene ad Allah, la versione islamica del dio biblico; né tantomeno appartiene al dio dell’istituzione cattolico-romana, che nel suo nome ha esercitato per secoli un potere temporale spietato.
Sono stato battezzato - esorcizzato a mia insaputa; sono stato indottrinato e cresimato, ovvero arruolato (posso contestare?) fra i legionari di Cristo; sono stato confessato ripetutamente vivendo anch’io, da adolescente, l’intima frustrazione di tutte le persone della mia generazione alle quali, per dirla alla Benigni, è stata rivolta la domanda inquisitoria: “ Quante volte?”.
Mi sono sposato in chiesa, pur non credendo nella sacralità della funzione religiosa solo perché celebrata da un prete; ma solo in quella della prole che avrei procreato. Giusto quarant’anni fa, nel bel mezzo di detta cerimonia, ho masticato per l’ultima volta il pane eucaristico, pur non credendo nel dogma della “transustanziazione”; ma interpretando la frazione del pane e il versamento del vino unicamente come chiare metafore del corpo e del sangue di Gesù, che egli si apprestava ad offrire con l’accettazione di una morte violenta. Andando oltre: è forse troppo azzardato interpretare che il suo messaggio sia molto più pregnante e che la richiesta di Gesù ai suoi discepoli “fate questo in ricordo di me” sia molto più impegnativa? – Ecco, io sto per sacrificare la mia vita per amore del vangelo e per voi, che mi siete amici; il mio corpo sarà spezzato come questo pane, il mio sangue versato come questo vino; siate dunque pronti, seguendo il mio esempio, a mettere in gioco la vostra stessa esistenza, e al limite a sacrificarla, ricordando quel che sto per fare io.
Battezzare i neonati è una tradizione rispettata dalla quasi totalità delle famiglie italiane; tuttavia, ogni qualvolta ho presenziato a questa cerimonia in ambito familiare, il mio disagio psicologico al momento degli esorcismi è stato tutt’altro che lieve; secondo la teologia cristiana, infatti, il battesimo dei neonati è necessitato dal peccato originale, il nefasto dogma dottrinale che, a parer mio, ha inquinato tutta la teologia del cattolicesimo.
E’ una dottrina nella quale nessuno crede più. Essa è inaccettabile proprio per coloro che, vivendo la letizia di una fede autentica, vedono, nel primo sorriso che illumina l’adorabile viso di un bambino, il sorriso dolcissimo di un Dio venuto a soffrire in un Uomo: quel Dio che ha saputo morire come uno schiavo.
Quand’avevo vent’anni mi sentivo immortale; oggi, proprio perché le mie aspettative di vita si sono così sensibilmente ridotte, mi domando: cosa posso fare per sottrarmi all’invadenza di una casta clericale che pretende di gestire la vita degli uomini per tutto l’arco della loro esistenza? La risposta non può che essere: un funerale laico allietato dalle armonie musicali che più mi hanno gratificato in vita. Umberto Eco, anche in questo, è stato un ottimo maestro.
Tralasciamo ora tutte queste elucubrazioni di stampo esegetico-teologico, e torniamo con i piedi per terra. Il parlamento italiano ha calendarizzato, nella primavera di quest’anno, la discussione della nuova proposta di legge sul testamento biologico e sul suicidio assistito.
La politica, finalmente, pare così disponibile a porre rimedio all’annosa controversia riguardante il problema del fine-vita per i cittadini di questo Paese: a tutt’oggi non esiste infatti alcuna legge che certifichi la validità giuridica di questi “testamenti”, e che riconosca l’istituzione di registri comunali nei quali detti documenti possano venire conservati. Ovviamente, come laico, sono ben felice che si inizi quantomeno a discutere sulla legalizzazione di una Dichiarazione che permetta di indicare anticipatamente i trattamenti medico – farmaceutici che ognuno intende ricevere o rifiutare nel caso di manifesta incapacità di poter esprimere la propria volontà nel periodo terminale dell’esistenza.
Parliamo ora, per un attimo, di suicidio “assistito”, ovvero di eutanasia: si intende, con questo termine, l’interruzione della vita procurata a persone inguaribili e penosamente sofferenti, indotta dall’assunzione di sostanze del tutto estranee alla biochimica dei viventi.
Riguardo alla sua legalizzazione sono molto, molto perplesso; forse perché ogniqualvolta una persona di mia conoscenza, risucchiata nella voragine nera della depressione, ha optato per il gesto estremo, ho provato un senso di pena inesprimibile: al pensiero che un uomo, per una sua sconfitta esistenziale, abbia potuto ammainare la bandiera della Vita.
Ma poi, ci pensate? La molecola più “stupefacente” (non estranea al nostro organismo) che madre Natura ci ha regalato si chiama morfina; l’assuefazione ad essa, in un malato terminale, non è certo un problema. Una terapia-antidolore a base di questa sostanza, in associazione sinergica con un potente psicofarmaco capace di indurre euforia….tranquillo Giovanardi! Che esperienza di sensazioni beatifiche indicibili, prima che il cuore scandisca nel tempo il suo ultimo battito!
L’entusiasmo di chi desidera ardentemente una legge che possa garantire a tutti una morte dignitosa si scontrerà certamente con la realtà, allorché essa approderà in Parlamento: come dimostrano le recenti polemiche ideologiche sulle unioni civili, il percorso di tutte le leggi su temi etici, in Italia, non è mai stato agevole; fin dai tempi del divorzio.
L’ingerenza di una tecnologia sempre più affinata nella fase terminale dell’esistenza è in grado di procrastinare a tempi indefiniti l’attimo dell’esaurimento della vita. Non è arrivato il momento di lasciare alla sola natura il compito di gestire la morte? Di riconoscere ad ogni persona il diritto di rifiutare inutili accanimenti imposti nel nome di un’ideologia che esalta il dolore dissacrante, quando si tratta di lasciare cadere una vita senza speranza marchiata da vana sofferenza? Una legge sul testamento biologico, condivisa da laici e cattolici e fondata sul riconoscimento della libertà di coscienza dei singoli, è attesa da anni; inoltre una buona legge, atta a superare la tentazione di legalizzare l’eutanasia, potrebbe recepire quanto recita lo stesso Catechismo al n. 2278:
“L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire (…)”.
Purtroppo, quando il Parlamento italiano sembrava essere vicino ad una sintesi condivisa delle varie proposte, ecco l’intervento della Cei, nella persona del suo presidente dell’epoca, a ribadire il suo impegno per l’ennesima battaglia di retroguardia: “Non riteniamo necessaria una legge specifica sul testamento biologico”.
L’esortazione evangelica a distinguere tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, calata nel contesto delle vicende politiche italiane, continuerà ad avere una straordinaria attualità fino a quando la gerarchia pontificia non cesserà di arrogarsi il diritto di dettar legge, oltre che su temi di morale individuale, anche su problematiche di etica sociale. Non spetta infatti ad alcuna autorità religiosa legittimare il diritto dei cittadini all’esercizio referendario, né tanto meno condizionare con toni da scomunica (è accaduto col referendum sulla procreazione assistita) l’avvalersi da parte loro di tale strumento. Né spetta ai vertici della Cei, com’è avvenuto nel corso delle polemiche sul progetto di legge per le coppie di fatto, spingersi a preannunciare una nota vincolante per i parlamentari di area cattolica. Abbiamo forse perduto i nostri diritti di cittadini d’uno Stato laico per diventare sudditi di una oligarchia teocratica?
Non è facile, per una società lacerata come quella italiana, riuscire a trovare riferimenti unificanti. Il fatto è che, da sempre, il condizionamento dei partiti politici e l’indirizzo delle loro scelte parlamentari hanno interessato gerarchia e magistero cattolico ben più dei temi di divulgazione evangelica. Il senso di mortificazione per una chiesa che si limita unicamente ad auspicare un sincero dialogo fra teologia e scienza, al fine di dare impulso ad un atteggiamento nuovo del cattolicesimo nei confronti della modernità e delle sue sfide, è stato ben espresso, anni addietro, dall’intellettuale cattolico Pietro Scoppola con parole attualissime:
“La Chiesa sembra porsi di fronte alle forze politiche italiane come un’altra forza politica; la sua stessa immagine risulta appiattita sulle logiche dello scambio, impoverita di ogni slancio profetico, lontana dal compito di offrire ad una società inquieta e lacerata motivi di fiducia, di speranza, di coesione. Le responsabilità del laicato cattolico sono del tutto ignorate. Sorpresa e disorientamento sono forti per tutti i cattolici che hanno assorbito la lezione del Vaticano II su una Chiesa-popolo di Dio nella quale il ruolo della gerarchia non cancella ma è al servizio di un laicato che ha proprie specifiche responsabilità. Tra queste vi è proprio quella di tradurre nel concreto della legislazione di uno Stato democratico esigenze e valori di cui la coscienza cattolica è portatrice. E’ legittimo e doveroso per tutti i cittadini, e perciò anche per i cattolici, contribuire a far sì che le leggi dello Stato siano ispirate ai propri convincimenti; ma questo diritto-dovere non è la stessa cosa che esigere una piena identità tra i propri valori e la legge. E’ in questa dinamica che si esprime l’esigenza della responsabilità del laicato cattolico nella vita politica.”
La risposta a queste parole, calata nello scenario religioso italiano dominato dall’immagine autocelebrativa del cattolicesimo, è stato il monologo sconsolante dell’ex presidente Cei “La Chiesa sta vincendo!” ascoltato solo dai benpensanti dell’integralismo religioso, dallo stuolo degli atei clericali che devotamente scodinzolano per investire il loro plauso in politica e da tutti quei cattolici che per paura della verità non si decidono a diventare “adulti”.
E le aperture conciliari del Vaticano II al pensiero e alla morale laica, per favorire (nei fatti!) quel dialogo tra fede e ragione in grado di proporre soluzioni condivise ai problemi di emergenza etica e bioetica a tutt’oggi irrisolti? Recentemente, ci ha pensato l’attuale arcivescovo di Milano cardinale Scola (papabile in occasione dell’ultimo conclave) a prendere posizione sui temi che investono cattolicità e mondo secolarizzato: indicando proprio nella laicità di uno Stato il maggior pericolo per l’esercizio della libertà religiosa dei suoi cittadini.
Si sussurra in quel di Reggio, cardinale Ruini, che Lei non sia in perfetta sintonia con l’attuale vescovo di Roma; lo stesso dicasi di altri porporati, papisti devoti al potere dell’istituzione che rappresentano e alle sue tradizioni. Le dirò che queste voci, vere o false che siano, mi interessano relativamente: visto che sento di non appartenere più a quel cattolicesimo romano del quale, in passato, Ella è stata tra i suoi esponenti più blasonati. Esimio cardinale! Credo che a vincere, oggi, non sia la sua chiesa; ma la Chiesa di Francesco. Penso che il vero Dio, se esistesse, sarebbe laico; e certamente non sarebbe il suo Dio. Il suo cattolicesimo, sposato alla teologia di un magistero che ha oberato le coscienze per sedici secoli, è stato fallimentare: proprio perché ha condotto alle società paganeggianti di questo nostro Occidente “cristiano”, dove il rifiuto della sua chiesa coincide col rifiuto di Dio. Onorevole Ruini, quand’è che smonterete dal nostro groppone?
Per concludere, vorrei proporLe quanto ebbe a scrivere un laico autentico – al secolo Eugenio Scalfari – che mai si permetterebbe una parola irrispettosa verso chi coltiva la propria spiritualità:
“La laicità senza aggettivi riposa esclusivamente sul principio di non imporre mai, alle coscienze dei cittadini, alcun vincolo all’infuori di quello che vieta a ciascuno di limitare la libertà altrui e di violare il principio di eguaglianza di tutti di fronte alla legge (…) L’esempio più chiaro è quello della legge sul divorzio. Si tratta di una norma facoltativa, che consente a chi vuole utilizzarla di avvalersene; non la impone a chi, per motivi di “credo religioso”, non intende farlo (..) Tutte le leggi che invadono il campo dell’etica sono pur sempre facoltative. Impedirne, o tentare di impedirne la promulgazione, vìola un principio costituzionale.”