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6giu/16Off

Antisemitismo e Razzismo

Articolo del nostro iscritto Gianni Benevelli (iniziativa laica.it 06.06.16)

ANTISEMITISMO E RAZZISMO

 Nelle pagine finali del già citato volume di Messori Ipotesi su Gesù, l’autore affronta, pur non affondando la penna nella piaga, uno degli argomenti più imbarazzanti per l’istituzione cattolico – romana: il tema dell’antisemitismo e del razzismo, la degenerazione più infame prodotta dal letargo dell’umana ragione. La diagnosi fatta dal giornalista scrittore sulle loro cause (individuate principalmente nell’illuminismo!!) è, a parer mio, semplicemente aberrante. Così come non è condivisibile la netta separazione che egli propone fra antisemitismo e razzismo, come se non fossero le due facce perverse di una stessa medaglia. Trovo infatti difficoltà a capire che differenza passi tra un individuo “ariano” convinto di appartenere ad un’etnia “superiore” e un secondo individuo “antisemita” che vede nell’Ebreo il tipico rappresentante di una “razza inferiore”: sono entrambi vittime di una propaganda nefasta e imbecille con il cranio ripieno di squallidi pregiudizi e basta.

Cap. VIII: «L’illuminismo, settecentesca età della ragione, seppellì sotto le rovine del “mito adamitico” anche il principio dell’assurdità del razzismo. L’olocausto nazista di milioni di uomini sugli altari degli dei della razza e del mito ariano ha le sue origini nel grido volteriano di “schiacciare l’infamia” della “barbarie biblica” con la fiaccola della “ragione illuminata”».

A questo punto non posso esimermi dal ricordare a Messori che l’illuminismo si sviluppò come movimento filosofico-culturale capace di riscoprire, alla luce della ragione critica, quei valori di libero pensiero e libera coscienza repressi da secoli di oscurantismo feudale e religioso. Esso si batté per il riscatto sociale della persona, ne incentivò l’istruzione come mezzo imprescindibile di emancipazione, ne esaltò l’autonomia di giudizio, cardine della laicità.

« L’Illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di “minorità”, imputabile solo a se stesso, per l’incapacità di avvalersi della propria razionalità senza l’altrui guida» (Immanuel Kant).

Esso si diffuse per abolire l’arbitrio di insensati privilegi nobiliari e per riscattare le società europee del 700 da un opprimente assolutismo monarchico che trovava appoggio nel parassitismo dell’aristocrazia e nella corruzione dell’alto clero.

Non posso inoltre non rilevare come Messori abbia una singolare affinità di pensiero con papa Ratzinger: il pontefice emerito che, riconoscendo la conformità della ragione alla natura di Dio, nel corso del suo pontificato ha liquidato il comunismo ateo come nefanda ideologia dispensatrice di lutti e miserie; ma che inaspettatamente, pur biasimando nazismo e fascismo come ideologie contrapposte al bolscevismo e altrettanto nefaste, ha condannato  l’illuminismo come male supremo, perché promotore del relativismo contemporaneo.

«In ogni sistema di pensiero che si allontana dalla tradizione ebraico-cristiana - continua Messori - il razzismo è sempre in agguato. Per la filosofia greca, secondo molti insuperata maestra di saggezza, la distinzione degli uomini tra liberi e schiavi è fondata sulla natura stessa. Platone ringrazia gli dèi di essere nato “uomo e non donna; libero e non schiavo”».

Non era però necessario, da parte dello stesso Messori, fare riferimento ad un personaggio tanto insigne quanto lontano nel tempo per denunciare una mentalità così accondiscendente nei riguardi della schiavitù, il triste fenomeno che ha costituito la base economica di tutto il mondo antico fino ad epoche a noi vicinissime. Il già citato san Pio IX, certamente illuminato da divina ispirazione, scrive al punto 14 delle sue “Istruzioni” (1866): «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Possono esserci molti giusti diritti alla schiavitù: sia i teologi che gli interpreti dei sacri canoni vi hanno fatto riferimento (…) Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato».

Mai cesserò di ribadire che tale “istruzione” papale veniva emanata 77 anni dopo la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea costituente di Francia (1789). Tale documento, statuto fondamentale delle libertà umane i cui articoli servirono da preambolo alla Costituzione francese (1791), risentì l’influsso della Dichiarazione americana ma soprattutto del pensiero illuministico di Montesquieu, Locke, Diderot, Rousseau e Voltaire.  Quest’ultimo, tornato in Francia dopo otto anni di permanenza alla corte del re di Prussia, si prodigò per soccorrere perseguitati, fece costruire a proprie spese case per i poveri, si attivò per pacificare, con successo, cattolici e calvinisti del suo dipartimento. Nonostante i suoi scritti fossero messi “all’indice”, non è casuale che egli godesse della stima di Papa Benedetto XIV, al secolo il bolognese Prospero Lambertini: l’illuminista francese ebbe numerosi scambi epistolari con questo pontefice, considerato dagli storici della chiesa un convinto anticipatore della linea conciliare giovannea. Voltaire fu anticlericale intransigente e nemico dichiarato di tutte le religioni istituzionalizzate, è vero; ma solo perché convinto, a ragione,  che il principale ostacolo alla fraterna convivenza fosse radicato nell’intolleranza e nel fanatismo religioso. Con la formulazione dei principi di libertà politica e civile, la Dichiarazione dei diritti gettava le basi dell’assetto costituzionale degli Stati moderni.

Del resto lo stesso Messori, prima della sua stupefacente folgorazione sulla via del Vaticano, aveva scritto (cap.III): «L’anelito di giustizia, l’amore per l’uomo, il concetto di “persona”, l’idea della società come lotta e della storia come progresso, che hanno origine dal cristianesimo e dalla sua radice ebraica, sono il frutto del processo di laicizzazione dell’antico messaggio religioso. Così come il “Libertà, eguaglianza, fraternità” dei rivoluzionari francesi non è che slogan evangelico».

Ritornando al tema della schiavitù, il lettore smarrito e incredulo potrebbe sempre documentarsi e deliziarsi col leggere la delirante bolla pontificia indirizzata da papa Nicolò V al re del Portogallo (1454):

«Nella pienezza della potestà apostolica (…) concediamo piena e libera facoltà di invadere, conquistare, espugnare, debellare e soggiogare saraceni, pagani e altri nemici di Cristo ovunque siano; nonché i regni, i ducati, i principati, i domìni, i possedimenti, i mobili e gli immobili da essi ovunque posseduti, riducendo gli abitanti in perpetua schiavitù».

Vale la pena di sottolineare che la missiva fu stilata da un pontefice, lui sì amico di Cristo, “nella pienezza della potestà apostolica”; vale a dire con l’approvazione incondizionata del “Sacro collegio” romano. Siamo veramente all’apoteosi dello spirito evangelico. In conclusione il Vaticano non fu certamente il primo Stato sovrano a ripudiare la schiavitù. In compenso fu l’ultimo.

Ma Messori è un modenese con la testa dura e “quadra” quasi come quella di un reggiano; e, caparbio com’è, non ci molla:

«Le fiamme dei forni crematori del Terzo Reich, come le atrocità dei “colonizzatori” europei nel mondo, sono state alimentate anche da questi maestri (gli illuministi n.d.r.) della ragione “liberata”. Sino a quando le chiese hanno mantenuto un legame con la radice biblica, la vergogna dell’antisemitismo cristiano non giunge mai sino al razzismo. L’ebreo è da “convertire”, se necessario con la forza; non mai da sopprimere perché inferiore, sub-umano. Punte di razzismo spuntano invece nella teologia cristiana quand’è più inquinata dal pensiero greco-latino, con il suo ambiguo Dio dei filosofi. E’ il caso, soprattutto, del XVI secolo, dell’era cioè delle grandi scoperte geografiche: quando si discute se gli abitanti delle Americhe siano uomini, se abbiano quindi un’anima».

Evidentemente, però, le conclusioni tratte da queste profonde “elucubrazioni teologiche” non dovettero essere  molto favorevoli agli amerindi, visto che lo sfruttamento e il genocidio di quelle popolazioni non si arrestò nonostante «la voce sdegnata del domenicano Bartolomeo de Las Casas, il santo degli indios», si fosse levata a denunciare impietosamente il loro genocidio perpetrato dalla “cattolicissima” Spagna.

Nella stessa epoca la riduzione in schiavitù delle popolazioni africane delle coste atlantiche, e la loro tratta marittima in catene verso le terre del “nuovo mondo”, divenne lo strumento più efficace per lo sfruttamento agricolo dei possedimenti d’Oltremare delle nazioni “cristiane” europee. Il turpe commercio di uomini durò circa tre secoli.

In tutto quest’arco di tempo scandito dal silenzio assordante della gerarchia cattolica e dei suoi “teologi”, si levò mai la voce sdegnata di un qualche “santo dei neri” ad additare ad una chiesa muta e cieca l’essenza del Messaggio? Evidentemente la pelle dei neri schiavizzati era così nera, che la loro non appartenenza al genere umano era ritenuta assolutamente fuori discussione.

Gli storici valutano in circa tre milioni gli schiavi approdati sulla costa del continente americano: frazione piccolissima del numero totale di individui strappati alle loro terre d’origine, in quanto la mortalità dovuta alle condizioni disumane del trasporto era altissima. Si dovette arrivare agli inizi dell’800, con l’affermarsi delle idee illuministe, per assistere al ripudio della tratta da parte della Francia post rivoluzionaria, degli Stati Uniti, di Danimarca, Olanda, Inghilterra, Svezia. Il decreto di soppressione della schiavitù, da parte degli Stati europei, fu ufficializzato dal Congresso di Vienna (1815).

L’aspirazione viscerale del buon Messori, che si improvvisa “storico” nel tentativo di assolvere l’istituzione ecclesiale dei secoli passati dalle oggettive responsabilità storiche per l’antisemitismo, raggiunge l’apice nel cap. XIV del suo volume Qualche ragione per credere, scritto a due mani con un certo Brambilla:

«In effetti, se l’ultimo secolo e mezzo è stato il più sanguinoso della storia, la responsabilità è anche del cosiddetto “darwinismo sociale”. E’ con esso che nasce il razzismo: quello vero, biologico, basato sulla gerarchia delle “razze” e sul diritto-dovere delle più forti di imporsi sulle altre. L’antisemitismo, ad esempio, è fenomeno tutto moderno, post-darwiniano persino nel nome, sconosciuto alla tradizione precedente; a cominciare da quella cristiana, per la quale l’ebreo è un fratello in umanità “da convertire”, almeno nelle intenzioni e malgrado le deformazioni della storia, solo per amore (…)».

Come rispondere a simili esternazioni tese (loro sì!) a deformare la storia? Con la storia. Se da un lato è vero che il termine “antisemitismo” è post-darwiniano, nel senso che il suo conio è databile alla fine dell’’800, dall’altro è una manipolazione storica, clamorosa e ingenua, il propagandare che tale fenomeno fosse sconosciuto alla tradizione precedente, specie cristiana: esso era semplicemente indicato colla parola “antigiudaismo”. Da quando il cristianesimo divenne culto ufficiale dell’impero romano, si sviluppò infatti un antigiudaismo tipico della nuova “religione di Stato”. Sebbene fosse radicato in null’altro che potremmo oggi definire l’intolleranza, l’ignoranza e la cattiveria che allignano nell’uomo, esso trovò ispirazione e giustificazione nell’accusa al popolo ebraico di essere “deicida”, cioè collettivamente responsabile della morte di Gesù. La diaspora, dispersione degli Ebrei nel mondo, venne a lungo interpretata come perenne castigo divino per tale supposto crimine. Emarginati e sottoposti a dure restrizioni nel corso della storia, gli Ebrei ebbero un ruolo di primo piano nell’economia medievale, assolvendo ad importanti funzioni finanziarie (come il prestito a interesse) ufficialmente interdette ai cristiani.

Il III concilio lateranense, convocato da papa Alessandro III (1179), oltre a stabilire che l’elezione del pontefice fosse riservata ai soli cardinali, condannò come eretico il movimento pauperistico valdese  includendo pure gli Ebrei, appunto perché popolo deicida, fra gli eretici da estirpare. Ma le prime reali misure applicative nei confronti della diaspora ebraica, nel Regno pontificio, risalgono al successivo concilio lateranense, il IV, indetto da papa Innocenzo III (1225). Alcune sue delibere si rivolsero specificamente contro la popolazione ebraica, dopo che lo stesso pontefice, nel 1199, aveva bollato come eretici tutti quei movimenti di predicatori che non riconoscevano la supremazia religiosa del vertice della cattolicità: tale disobbedienza, dichiarata appunto eresia, fu equiparata al crimine di lesa maestà; tanto l’eretico che l’Ebreo divennero quindi “criminali” agli occhi inquisitori dell’apparato clericale romano.

La propaganda antigiudaica si esercitò, nei secoli, nel tratteggio di un prototipo totalmente negativo dell’Ebreo, che fu privato del diritto di accedere alle libere professioni e di aspirare ad ogni ufficio di carattere pubblico;  allo scopo di marcare visibilmente la loro separazione dal ceto cristiano, fu imposto loro di indossare abiti discriminanti recanti un segno umiliante di riconoscimento; ebbe inizio la loro segregazione coatta in quartieri adibiti a loro esclusiva abitazione. L’istituzione del ghetto, divenuta obbligatoria e definitiva ai tempi della Controriforma con la bolla di Paolo IV (1555), si diffuse in tutti gli Stati della penisola e nella maggior parte delle nazioni europee. La loro emarginazione sociale venne abbinata ad una segregazione psicologica che assunse la forma di presunzione di colpevolezza in tutti gli eventi di pubbliche calamità. Crisi economiche, carestie, epidemie: i “perfidi Giudei”, per la cui conversione mai ci si dimenticò di pregare “amorevolmente”, costituirono il capro espiatorio più utilizzato dalla diplomazia dei regnanti dell’Europa “cristiana”.

Solo con l’avvento dell’ “età dei lumi”, così invisa a Messori e alle eminenze pontificie, l’antigiudaismo subì una critica radicale e agli Ebrei furono riconosciuti tutti i diritti civili spettanti ad ogni altro cittadino. Ma proprio quel repentino riscatto civile della popolazione ebraica e la loro rapida ascesa sociale nel campo delle libere professioni e nel mondo economico-finanziario scatenarono, in un epoca pervasa da miti nazionalistici, imperialistici e da ideologie giustificatrici pseudo-scientifiche (tra le quali, appunto, il darwinismo sociale) una nuova e violenta ondata di antisemitismo razzista che investì l’intera Europa del XIX secolo e che culminò (1938) nella promulgazione delle leggi razziali nazifasciste, la pagina più vergognosa della nostra storia.

Ma c’era da aspettarselo: il “lupo dentro”, quello autoctono, nostrano, alimentato per secoli e secoli coi bocconi del pregiudizio, dell’intolleranza e della paura del “diverso” e aizzato per altrettanti secoli contro “il lupo fuori”, quello da esorcizzare e da distruggere…. poteva, solo perché momentaneamente sedato, non risvegliarsi più famelico e mannaro?

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