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21set/16Off

Evoluzionismo e creazionismo

EVOLUZIONISMO E CREAZIONISMO

L’età della Terra è stimata in circa 4,6 miliardi di anni. Un miliardo di anni dopo la sua nascita si realizzava, nell’ecosistema terrestre di quell’era lontana, la più complessa transizione nell’organizzazione della materia che l’universo abbia mai conosciuto: quella dal non vivente al vivente. Com’è nata la vita sulla Terra? Non lo sappiamo. È in questo senso che la sua apparizione costituisce, in gergo scientifico, una singolarità: un evento, attestato dall’esperienza, del quale la scienza non è in grado di dare spiegazione, in quanto esso trascende la comprensione della razionalità umana.

La nascita della vita, “singolarità biochimica”, è la concretizzazione del supremo anelito dell’universo in espansione. La materia si è organizzata in vita; la vita si è evoluta in forme sempre più complesse guidate da saggi comportamenti istintivi; gli istinti si sono affinati in intelligenza fino alla comparsa del cervello umano, il prodotto tecnologicamente più avanzato del cosmo conosciuto, “specchio dell’essere” elevato a strumento per la sua autoconoscenza: forse l’unica frattura evolutiva, per la sua predisposizione a formulare giudizi, tra capacità umane e animali. La materia è diventata “mente”, coscienza di vita, consapevolezza dell’essere, consapevolezza di esserne consapevole; è divenuta urgenza di amare, ansia esistenziale, anelito di giustizia, tensione morale; la materia è diventata “spirito”. E’ come se l’universo stesso, divenuto capace di “pensare se stesso” e di autoconoscersi attraverso la scoperta delle leggi che regolano i processi del suo divenire, fosse stato coinvolto in un processo di “divinizzazione”.

La singolarità della vita: un fiume impetuoso e inarrestabile che scorre e si trasmette nel tempo; uno stupefacente manifestarsi ininterrotto di equilibri dinamici tra esseri viventi e ambiente; un solo tema con molteplici varianti, tante quante sono state e sono le tipologie viventi che nel corso dell’evoluzione, via via rimodellandosi, hanno colonizzato tutte le nicchie dell’ecosistema del pianeta.

La scienza, oggi, è letteralmente dominata da quella concezione di evoluzione biologica del vivente che trova la sua articolazione più efficace nel contesto della teoria darwiniana dell’evoluzione delle specie, teoria convalidata e perfezionata dalle conquiste della biologia molecolare e della genetica: all’interno di ogni singola specie biologica, la trasmissione delle caratteristiche ereditarie alle generazioni successive è regolata da un processo di selezione naturale che permette solo agli individui per così dire vincenti, ossia meglio adattati al loro contesto ambientale, di sopravvivere e di riprodursi.

Va riconosciuto, tuttavia, che la  scienza è ancora lontana dalla possibilità di fornire la soluzione globale al problema della costante ascesa del vivente verso la complessità; ascesa che pare guidata, lungo la tortuosa scala evolutiva, da un “progetto” indirizzato al perseguimento di una finalità; né essa è in grado di chiarire fino in fondo i meccanismi biochimici che sono alla base dei più significativi salti evolutivi che si sono succeduti nella profondità del tempo.

Le teorie neodarwiniane vacillano di fronte al processo che condusse, a partire da organismi unicellulari, alla nascita delle cellule eucariote, capaci di interagire reciprocamente per formare strutture multicellulari; vacillano di fronte al processo di differenziazione tra cellule vegetali e animali, processo che condusse alla più straordinaria complementarietà biologica esistente in natura fra gli opposti metabolismi che caratterizzano i due regni di viventi: quello delle piante verdi basato sulla fotosintesi clorofilliana e quello degli animali basato sulla respirazione; vacillano di fronte al fenomeno umano, il cui cervello ha conosciuto una tale progressiva complessità evolutiva, da fare dell’homo sapiens l’unico animale “religioso”.

Ma i problemi inerenti alla costante ascesa della vita verso la complessità impallidiscono di fronte al più enigmatico rompicapo della biologia, rappresentato dalla comparsa della vita nel suo primo e più semplice abbozzo entro il “brodo prebiotico” di un ambiente primordiale. La scintilla della vita si accese allorché si attivò per la prima volta, nella cellula primeva, una concertazione strategica perfetta, un “gioco di squadra” inimmaginabile tra acidi nucleici e proteine.

La singolarità della vita: il mistero della sua nascita affonda le radici proprio nella simultanea attivazione di queste straordinarie macromolecole e nella loro cooperazione collettiva, coerente e rigorosa; senza la loro prodigiosa collaborazione all’interno della compagine cellulare, la vita sulla Terra non potrebbe esistere.

Tutti i processi biochimici sono catalizzati da enzimi: non fa eccezione la sintesi degli acidi nucleici, DNA e RNA; non è un caso, quindi, che il lavoro cellulare sia governato da migliaia di proteine enzimatiche formate dall’assemblaggio di venti amminoacidi fondamentali: è la loro specifica sequenza, all’interno della catena proteica, a dettarne l’attività  biochimica e a stabilirne la specifica funzione biologica; esattamente come le ventuno lettere dell’alfabeto, combinate opportunamente, possono formare tutte le differenti parole esistenti, ciascuna correlata al preciso significato suo proprio. Gli acidi nucleici, dunque, sono il prodotto più pregiato dell’attività catalitica di specifiche proteine enzimatiche.  «Ma tutte le proteine vengono a loro volta costruite in base alle istruzioni contenute negli acidi nucleici

Nella ricerca di come sia nata la vita si ripropone, secondo il fisico e filosofo della scienza  Paul Davies, l’antico paradossale dilemma: «se sia nato prima l’uovo o la gallina.»

L’origine della vita dalla non vita rimane a tutt’oggi il più profondo, insoluto mistero della biologia.

 

Fu solo dopo l’esilio babilonese che la Genesi, il primo libro della Bibbia, uscì dalla preistoria della tradizione orale per diventare “Scrittura” . Due sono i racconti , differenti fra loro, che descrivono l’atto creativo di Dio. Il primo è costituito da una dottrina sacra tramandata da generazioni di sacerdoti: Dio (Elohim) fa scaturire la luce dalle tenebre, accende il firmamento, separa la terraferma dalle acque, crea la vita vegetale e animale; il sesto giorno, a compimento dell’opera, il processo creativo ascendente raggiunge l’apice:

“Così Dio creò gli uomini secondo la sua immagine; a immagine di Dio li creò; maschio e femmina li creò. Quindi li benedisse dicendo loro: - siate fecondi, moltiplicatevi e popolate la terra (…)”.                                                           (Gen. 1,28)

 

All’uomo, cui è conferita la dignità di recare in sé l’immagine di Dio, è affidata la cura di tutto il creato.

Il secondo racconto, molto diverso, non si limita a celebrare la bontà della creazione; anche il nome di Dio cambia: è indicato col tetragramma Jhwh, vocalizzato Jahwéh, che è rivelato nell’episodio del roveto ardente (“Io sono colui che sono”) a Mosè. Se il primo racconto culmina con la creazione dell’umanità e con l’istituzione del sabato, nel secondo racconto, discendente, è l’uomo maschio (Adam) a venire modellato dall’argilla prima degli animali, dei vegetali e della donna. Egli è posto nel giardino mitico dell’Eden per accudirlo, coltivarlo e procacciarsi il cibo lavorando. Al grande dono della libertà ricevuta dall’uomo è posta una sola limitazione:

“Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino; ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare; perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.”             (Gen. 2,16)

La libertà è tuttavia un fardello molto pesante: è fonte di tentazione ogni qualvolta l’uomo si trova di fronte a una scelta etica. Puntualmente, a incrinare l’armonia del giardino incantato, ecco infatti arrivare strisciando un ambiguo personaggio per indurre la prima coppia umana al “peccato”: il serpente.

“Il più astuto tra tutti gli animali disse alla donna: (…) quand’anche ne mangiaste, non morireste affatto: si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male”.                                                (Gen.3,4)

 

Sappiamo tutti come andò a finire. L’uomo, per orgoglio, si illuse di poter fare a meno di Dio, non riconoscendo la propria subalternità di creatura al suo Creatore: il frutto proibito  venne assaggiato.

“ Allora si aprirono i loro occhi e si accorsero di essere nudi”.             (Gen.3,7)

 

Il senso di vergogna per la reciproca nudità, ovvero l’umiliante presa di coscienza della propria fragilità nella solitudine, è la conseguenza immediata della trasgressione che ha fatto irruzione nella storia umana; il sesso, da gioioso, diventa malizioso. Non è difficile cogliere nella narrazione biblica dell’episodio, una sottile vena di arguta ironia:

“Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell’albero che ti avevo proibito? Rispose l’uomo : - E’ stata la donna che m’hai posto accanto a darmi il frutto dell’albero;  ed io ne ho mangiato. Il Signore Dio disse alla donna: - Che hai fatto? La donna rispose: - E’ stato il serpente, che mi ha ingannata; ed io ne ho mangiato”.                                         (Gen. 3,11)

 

Il serpente tentatore, quindi, non solo personificazione simbolica del male; ma anche comoda autogiustificazione per l’incapacità, tipicamente umana, di una piena assunzione di responsabilità.

Il serpente: solo elemento perturbatore della pace idilliaca dell’eden per l’esegesi rabbinica; identificato con il demonio per la teologia di tutte le chiese cristiane.

La dottrina di un peccato primordiale, ereditato da tutta l’umanità per la colpa di un mitico progenitore, venne poi sviluppata da Agostino di Ippona; nonostante sia la tradizione ebraica, sia i vangeli sinottici, ignorino la nozione del “peccato originale” come una trasgressione che si trasmette, marchiando, ogni uomo che nasce.

L’accettazione di tale dottrina, da parte del magistero ecclesiale, ebbe un immediato, nefasto contraccolpo sulla psicologia dei credenti: il “timor” di Dio fu trasformato nel “terror” di Dio.

 

Evoluzionismo e creazionismo. Qual è oggi la posizione teologica ufficiale del magistero cattolico sull’annoso dilemma? Essa ricalca quella strategia dell’ambiguità che consiste nel «far professione di due contrari» per dirla alla Pascal o nella collaudata diplomazia del «et-et» di cui Vittorio Messori da Sassuolo riconosce l’indiscutibile validità.

-     Nell’ultimo Catechismo (1993) viene puntualmente confermato il plurisecolare dogmatismo teologico del cattolicesimo: il “peccato originale” è definito come l’avvenimento che ha segnato l’ingresso dell’umanità nella storia. (primo et).

-     Nel documento “Comunione e Servizio: la persona umana creata a immagine di Dio”, edito (23/07/04) dalla Commissione Teologica Internazionale, i numeri 61-70 sono espressamente dedicati all’evoluzione. Nel numero 63 il documento ricorda che:

«la quasi totalità degli scienziati è concorde nell’asserire che il primo organismo ha abitato questo pianeta 3,5-4 miliardi di anni fa. Poiché è stato dimostrato che tutti gli organismi viventi della Terra sono geneticamente connessi tra loro, è praticamente certo che essi discendano tutti da questo primo organismo». (secondo et)

Vediamo ora come si colloca, nei confronti dell’evoluzionismo, lo scrittore cattolico sopra citato. Nel suo libro Qualche ragione per credere, egli fa riferimento al volume Evolution: a Theory in crisis di un “noto” biologo americano, di cui però tace il nome, per tesserne le lodi come:

«Voce non isolata, ma goccia nell’onda levatasi da tempo (…) contro l’appoggio “scientifico” all’ateismo e all’agnosticismo moderni.»

E per scrivere:

«Per tornare a questo libro dello scienziato (?) la conclusione è poi questa: alla luce della scienza oggettiva, non ideologica, la teoria darwiniana dell’evoluzione è il più grande mito della cosmogonia del ventesimo secolo.»

E per concludere:

«La mentalità evoluzionistica è uscita quasi subito dal campo delle scienze naturali (...).»

Tali sorprendenti affermazioni sull’attualità dell’evoluzionismo sono così incredibili da non meritare nessun commento.

Ogni persona, che nel corso della sua ricerca intenda conciliare fede e ragione per dar voce sia al credente che al non credente che albergano dentro di lui, perché è questa la reale condizione dello spirito umano innanzi al mistero dell’essere, si trova di fronte ad una pietra di inciampo formidabile: essa è costituita da una contraddizione lacerante che non può essere superata alla luce dell’incontestabile principio etico che ciascun individuo è il solo responsabile del male che compie e che i figli non sono responsabili delle colpe dei padri. Tale contraddizione fu pienamente colta da Pascal, ma il suo “misticismo” non gli permise di risolverla:

«E’ sorprendente che, fra tutti, il mistero più lontano dalla nostra comprensione sia quella della trasmissione del peccato. Non v’è nulla, infatti, che colpisca più duramente la nostra ragione quanto l’affermare che il peccato del primo uomo abbia reso colpevoli tutti coloro che, essendo così lontani da tale sorgente, sembrano incapaci di parteciparvi. Non solo tutto ciò ci pare impossibile, ci sembra pure molto ingiusto: che v’è di più contrario alle regole del nostro miserabile senso di giustizia, quanto il dannare eternamente un fanciullo senza colpa per un peccato avvenuto prima che egli fosse dato alla luce?»                                                      

La rimozione della contraddizione, già implicita nell’aggettivo “miserabile” attribuito da Pascal al sentimento di giustizia degli uomini, viene attuata con la premurosa esortazione

«a sottomettere la ragione all’autorità inviolabile della religione, che ci fa conoscere due verità ugualmente ferme e certe: una, che l’uomo, nello stato di creazione, è elevato al di sopra di tutta la natura, reso quasi simile a Dio e partecipe della sua divinità; l’altra, che nello stato di corruzione e di peccato, l’uomo è decaduto dallo stato iniziale di grazia e reso simile alle bestie. La Scrittura lo dichiara apertamente.»     (434)

Ma la contraddizione fra ragione e “certezza di fede”, quale scaturisce da una lettura fondamentalista della Genesi biblica, non è solo limitata alla inconcepibile trasmissione del “peccato originale” teorizzata teologicamente da Agostino (aveva ragione Pelagio![1]) e dogmatizzata autoritariamente dal magistero ecclesiale; essa finisce per coinvolgere lo stesso mistero di Dio.

Come può infatti conciliare, il “Cristiano che pensi”, il Dio amore e misericordia rivelato da Cristo con l’immagine implacabile del dio vetero-testamentario che, per punire la trasgressione della prima coppia umana, condanna a morte tutta la sua discendenza?

«Se un po’ di scienza allontana da Dio, molta scienza riconduce a Lui.»

E’ questo il pensiero di Pasteur, colui che propugnava la totale autonomia della ricerca scientifica da ogni condizionamento autoritario di stampo religioso. E quanto egli fosse buon profeta, lo dimostra il fatto che proprio la scienza, incredibilmente, ha indicato il superamento  delle contraddizioni menzionate, a livello teologico, della narrazione biblica.

Il fiume della vita scorre ininterrotto, attraverso il tempo, da circa 3.600 milioni di anni: dall’istante in cui, nel primitivo ambiente di una chimica prebiotica, si realizzò la sintesi di una molecola straordinaria capace di “fotocopiarsi” producendo copie identiche di se stessa, al fine di trasmettere il messaggio della vita attraverso le combinazioni di un alfabeto chimico di quattro lettere.

Il programma genetico codificato nel DNA, l’universale macromolecola che è inserita nel cuore di ogni cellula in ogni tipologia di vivente, tende a conservarsi identico e a trasmettersi inalterato da una generazione all’altra. Esso, tuttavia, è tutt’altro che immutabile: può infatti subire alterazioni, causate da errori casuali di trascrizione, che possono manifestarsi a livello della stessa molecola di DNA nel corso della sua replicazione. Allorché una “mutazione genica” si manifesta in una cellula sessuale, essa coinvolge tutta una popolazione di nuovi individui perché in tal caso è il messaggio alterato a venire trasmesso, con la comparsa di una nuova specie di vivente.

Elemento primario delle teorie darwiniane è il carattere “casuale” delle mutazioni che governano l’evoluzione; la natura disporrebbe così di un’ampia gamma di opzioni entro cui operare una mirata selezione, eliminando tutte le mutazioni nocive producenti specie non adattabili all’ambiente.

Paul Davies: «Gli esseri viventi di oggi si trovano in cima ad un albero genealogico costellato di disastri genetici.»

La casualità delle mutazioni teorizzata da Darwin costituisce l’elemento più indigesto per tutti i sostenitori più integralisti del creazionismo.

Ma dove sta la dicotomia, ovvero la sua contraddizione non conciliabile con l’evoluzionismo, se solo si considera l’evoluzione tutta come una dinamica di autotrascendenza della realtà materiale? Come la potenzialità della materia stessa di autosuperarsi elevandosi a spirito e di aprirsi all’escatologia?

Quando Darwin pubblicò la sua opera L’origine delle specie (1859), di cui propongo al lettore le battute conclusive, la sua teoria scosse dalle fondamenta la dottrina teologica delle chiese cristiane fondata sul “provvidenzialismo divino”.

«Autori della più alta autorità sembrano essere pienamente soddisfatti dell’ipotesi che ogni specie è stata indipendentemente creata. A mio parere, con quanto sappiamo delle leggi imposte dal Creatore alla materia, si accorda meglio l’ipotesi che l’apparizione e l’estinzione dei viventi passati e presenti siano dovute a cause secondarie, come quelle che determinano la nascita e la morte degli individui. (….) Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue diverse forze originariamente impresse dal Creatore in poche o in una forma sola; e nel fatto che, mentre il nostro pianeta continua a ruotare secondo l’immutabile legge della gravità, da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose si siano evolute e continuino ad evolversi.»

La teoria del grande naturalista fu avversata vigorosamente da parte degli ambienti ecclesiastici e dalla comunità scientifica più conservatrice della sua epoca che vedevano, nell’evoluzionismo, la dottrina più spinta di uno scientismo ateistico finalizzato alla desacralizzazione delle società umane.

Questa contrapposizione ideologica fra evoluzionismo e creazionismo non è più, oggigiorno, razionalmente sostenibile. Anzi: è proprio sull’origine dell’uomo che teologia e scienza possono trovare una reciproca conciliabilità.

Il “peccato originale”, infatti, non come “colpa”; ma come naturale conseguenza del salto evolutivo derivante dalla più singolare fra le mutazioni geniche, salto evolutivo che fu certamente stimolato dalla stessa evoluzione protoculturale che coinvolse le comunità primordiali degli ominidi: la conquista di un linguaggio sempre più articolato, da parte di quei nostri lontani progenitori, si accompagnò alla crescita sorprendente del loro volume cerebrale.

La “trasmissione del peccato”, quindi, unicamente come naturale trasmissione, alle successive generazioni, di tutti i nuovi caratteri acquisiti nell’evento della mutazione dall’individuo umanoide mutante. Allora la creazione segnò veramente l’attimo in cui l’ominide, individuando “il sè”, divenne uomo assaporando

il frutto della conoscenza, la conoscenza del bene e del male;

e per la prima volta, in piena libertà, interrogò la propria coscienza.

La creazione segnò l’attimo in cui l’ominide, diventato uomo, colse nella sua natura l’innato senso della “curiosità”, scoprendo in sé l’Ulisse dantesco:

Fatti non foste a viver come bruti,

ma per seguir virtute e conoscenza.

La creazione segnò l’attimo in cui l’uomo, guardando le stelle, seppe comunicare all’altro il suo bisogno di Dio, e per la prima volta divenne poeta:

Che fai tu luna in ciel?

Dimmi che fai, silenziosa luna!

La creazione segnò l’attimo in cui l’uomo, prendendo coscienza della caducità della vita, per la prima volta pensò la propria morte e ne colse tutto lo sgomento, perché:

La morte si sconta vivendo

Nessuna pena capitale, quindi, comminata all’umanità da parte di una divinità spietata e terribile che si cela dietro le quinte della creazione; ma semplice celebrazione della potenza creatrice di Dio e affermazione teologica del Suo privilegiato rapporto con l’uomo “creato a sua immagine e somiglianza”: raziocinante, cosciente e libero.

Non mi resta che ribadire, per concludere, quanto già ho avuto occasione di sostenere: questi attributi (di Dio e dell’uomo) definiscono inequivocabilmente i valori fondativi della laicità.

Quell’Assoluto trascendente che chiamiamo Dio, ravvisabile nel Dio gesuano delle Beatitudini e non nel dio delle confessioni religiose, sarebbe identificabile, qualora esistesse, come Assoluto della laicità.

Gianni Benevelli

www.iniziativalaica.it



[1] Pelagio, criticando la dottrina cattolica che previlegiava il ruolo della grazia divina nella salvazione dell’uomo, sosteneva che appartiene alla sua natura il libero arbitrio di scegliere il bene o il male e quindi la piena responsabilità del suo destino. Secondo il monaco britannico la morte, come fatto del tutto naturale, non può essere conseguenza del peccato originale, la cui responsabilità è da addebitarsi esclusivamente ad Adamo. In tal modo, schierandosi contro l’ereditarietà del primo peccato, egli negava valore al battesimo dei neonati. La dottrina di Pelagio, che trovò in Agostino il più accanito avversario, fu dichiarata eretica nel 417 e definitivamente affossata dal concilio di Cartagine nel 418, anno della sua morte.

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