Stefano Rodota’ sara’ sempre con noi
Articoli su Stefano Rodotà (uno suo pubblicato in occasione del Referendum costituzionale. E articoli di Zagrebelsky, Azzariti, Truzzi, Montanari) LEGGI DI SEGUITO
"Hanno tentato di dividerci. La nostra Carta ci ha uniti” di Stefano Rodotà (Fatto 24.6.17) "Pubblichiamo l’intervento che Stefano Rodotà ha fatto lo scorso 2 dicembre in occasione della serata “La Costituzione è NOstra” organizzata dal Fatto Quotidiano contro il referendum costituzionale."
""Credo che la riunione di stasera sancisca pubblicamente e in modo chiaro che il tentativo di impadronirsi della Costituzione che è in atto da un po’ di tempo è fallito. Questo dobbiamo dirlo, senza voler essere ottimisti, senza voler essere trionfalisti: è fallito. Se guardiamo agli atteggiamenti che vengono tenuti da parte di coloro i quali hanno fatto questo tentativo, c’è una conferma molto evidente. Dobbiamo non essere necessariamente ottimisti o voler dare un senso alle cose che facciamo: questo mi pare un dato di realtà. Il che vuol dire che vale la pena di fare queste cose. C’è una domanda che viene fatta da tanti. L’altra sera mi trovavo alla facoltà di Economia e commercio e alcuni ragazzi mi hanno chiesto: “Vale la pena di fare queste cose?”. La risposta è sì. Credo che il tentativo di impadronirsi della Costituzione, che è stato condotto con determinazione e aggressività (non ho bisogno di fare riferimenti particolari a come si comporta e a quel che ha detto il presidente del Consiglio), questo tentativo non è arrivato al risultato che si prefiggeva. Questo è il primo elemento che dobbiamo prendere in considerazione.
C’è un dato importante e storicamente significativo: se noi guardiamo a ciò che è avvenuto dal momento in cui la costituzione è entrata in vigore a oggi, in questo momento, in quest’ultima fase – con particolare intensità ed evidenza – i cittadini si sono riconosciuti nella Costituzione. Questo è un dato di novità. Se vogliamo continuare a usare luoghi comuni, c’è stato un boomerang.
Si è cercato di impadronirsi della Costituzione e il risultato è stato quello di richiamare l’attenzione dei cittadini tutti sull’importanza della Costituzione stessa e sulla necessità che rimanga terreno comune, luogo di reciproco riconoscimento. L’ho detto altre volte, lo dico stasera: ritenere che sia un terreno comune non significa che la discussione sia preclusa.
Una seconda considerazione. Le ragioni politiche contingenti – che ci sono sempre – non possono mai essere adoperate come giustificazione del voto o dell’atteggiamento favorevole a una cattiva riforma costituzionale. Le ragioni politiche contingenti ci sono, vanno valutate per ciò che sono effettivamente, ma quando siamo di fronte al tema costituzionale il primo problema è quello di far sì che la Costituzione rimanga luogo di confronto continuo e comune.
In altri termini, il rischio è quello di introdurre elementi divisivi. Credo che uno sguardo alla storia sia sempre importante. L’assemblea costituente fu molto consapevole di tutto questo. Il lavoro di scrittura della Costituzione – qualcuno dice ‘è riuscito a sopravvivere’, ma è una parola non adeguata – è riuscito a continuare anche dopo l’estromissione del Partito comunista e del Partito socialista dal governo. C’era la consapevolezza che si trattava di qualcosa che andava oltre il contingente. Noi non possiamo fermarci alle ragioni politiche contingenti. Ce ne sono tante, alcune sono anche esposte in maniera abbastanza dignitosa. Ma tutto questo non consente di ritenere che queste ragioni possano spingere a dire un sì e a non opporsi in maniera determinata a una riforma cattiva. L’abbiamo detto in vario modo.
Alcuni hanno fatto in questo periodo delle dichiarazioni a mezza bocca, o con un tanto di strumentalità e di astuzia, dicendo “io dico sì, sapendo che”: non si dice “sì, sapendo che” quando è in ballo la Costituzione. Sono dati da una parte di onestà intellettuale, dall’altra di moralità pubblica. Ci sono elementi che non possono essere messi in discussione.
C’è un terreno comune, l’ho detto, c’è un riconoscimento reciproco del dovere di confrontarsi con maggiore intensità quando le questioni sono quelle di cui stiamo parlando.
Il problema ora è quello del non dividersi. All’assemblea costituente, fu possibile non dividersi sui temi fondamentali. Se andate a guardare quale fu il voto finale sulla Costituzione, vi renderete conto che le ragioni contingenti non impedirono questo grandissima confluenza proprio sul voto finale. In questo momento uno dei problemi maggiori è esattamente quello dell’introduzione di elementi di divisione in situazioni in cui la divisione non può essere il criterio al quale fare riferimento. Una cosa è il confronto, che è necessario e indispensabile, altra cosa è la divisione: da una parte ci sono quelli che sono riconoscibili come coloro i quali appartengono alla discussione pubblica comune, dall’altra ci sono quelli che vengono esclusi. L’aggressività che manifesta in tutte le occasioni – e credo che non gli stia giovando molto – il presidente del Consiglio non va nella direzione giusta, non va nella direzione di un presidente del Consiglio che ha ruoli istituzionali particolari. Sono più i tentativi di coprire attraverso l’aggressività le difficoltà interne al governo che non quelli di parlare ai cittadini.
Sono elementi che dobbiamo considerare. Abbiamo avuto e abbiamo una grande forza che deriva dall’aver continuato a ragionare. Tutto quello che ho sentito stasera è ragionamento. Non tutti sono partiti dalle stesse premesse, non tutti arriveranno alle stesse conclusioni. Nel momento in cui la divisione, l’aggressività, il mancato riconoscimento dell’altro sembrano essere divenuti regole, ci sono coloro i quali ritengono e testimoniano con ciò che fanno ogni giorno la necessità del confronto continuo. Mi pare che sia l’unica importante considerazione da mettere al centro della nostra riflessione. Siamo qua stasera per fare questo: non ci sono aggressioni, che invece stanno diventando anche un po’ patetiche – chi ha poco da dire di solito urla. Abbiamo sentito molte urla e poche parole. Stasera siamo tornati al ragionamento.""
"Credeva in una società fondata sui beni comuni” intervista a Gustavo Zagrebelsky di Liana Mirella (Repubblica 24.6.17)
""«Per me è un grande dolore. Per il nostro Paese è un grande vuoto». Il professor Gustavo Zagrebelsky parla di Stefano Rodotà, il giurista stimato e il compagno di tante battaglie a difesa della Costituzione. Nella sua voce c’è commozione e rammarico per un amico di meno.
Cos’era Rodotà per lei, prima ancora che come giurista? «Sto cercando le parole... Un uomo di grande rigore e grande cultura. Di molta moderazione e di molta costanza nel perseguire i suoi ideali. A ciò aggiungerei uno stile asciutto, e, non sembri una contraddizione, molto dolce».
A me suona ancora nelle orecchie la sua voce roca, sempre pacata anche quando il dibattito pubblico non risparmiava eccessi. «Molti lettori di questo giornale ricorderanno le sue apparizioni in pubblico, anche in televisione, con questo modo di fare sempre chiaro, legato ai temi, slegato dalle persone con le quali poteva polemizzare ».
Ma lui invece è stato oggetto di pesanti aggressioni… «Sì, ne voglio ricordare in particolare una. Quando fu proposto come possibile presidente della Repubblica fu oggetto di un’ignobile campagna di denigrazione ».
Qual è stato il suo contributo alla scienza del diritto?
«Io ho conosciuto Stefano Rodotà alla fine degli anni Sessanta (aveva esattamente dieci anni più di me), in riunioni di giovani e meno giovani giuristi, il cui frutto fu la creazione di una rivista che esiste tuttora, con Rodotà presidente del comitato scientifico, il cui titolo è Politica del diritto. Nel gruppo c’erano colleghi che hanno preso le vie più diverse come Cassese e Amato. La ragione fondativa della rivista era una visione del diritto come strumento di trasformazione sociale. Politico in quel senso, non nel senso della politica dei partiti. Nel senso di una visione politico-civile del diritto. In particolare per lui, per la sua strada successiva, il diritto a protezione ed emancipazione dei più deboli».
Un filone che lo ha accompagnato a lungo…
«Sì, fino all’ultimo, fino al fondamentale volume del 2015 dal titolo Il diritto di avere diritti. Rodotà iniziò come un qualunque giurista prodotto dall’accademia italiana, occupandosi di temi classici del diritto civile e della loro, come si dice, dogmatica. I suoi primi studi sono stati dedicati alla responsabilità civile e al contratto: più classici di così! Il terzo era sulla proprietà, il titolo – Il terribile diritto – dice già molto. Sul diritto di proprietà si costruì la società borghese dell’800 con le sue tensioni, le ingiustizie, le divisioni in classi. La proprietà veniva estrapolata dai concetti giuridici per essere immersa nella grande storia dei rapporti sociali. Il punto finale degli studi storico- prospettici di Rodotà è stato il suo interesse per i beni comuni, sottratti alla partigianeria dei proprietari e attribuiti alla gestione degli utenti».
Ma sul tema dei diritti Rodotà è andato molto più in là fino a guardarli anche nella società futura.
«Per l’appunto. Rodotà è stato un pioniere. Negli ultimi decenni si è occupato a fondo di temi come gli aspetti giuridici della bioetica, l’impatto delle nuove tecnologie sull’esistenza delle generazioni presenti e future, lo sviluppo della tecnica e i rischi di disumanizzazione della vita. E infine della disciplina giuridica e dei diritti della circolazione dei dati in rete ».
Rodotà garante della privacy, paladino di un uso responsabile delle intercettazioni, senza violare il diritto di cronaca. Giudica la sua una posizione equilibrata?
«Era quella di chi si rende conto che esistono, e oggi esistono sempre più numerosi, problemi difficili, e difficili in quanto presentano diversi lati. È evidente che esiste un lato dell’essenziale libertà dell’informazione e uno della difesa della dignità delle persone. Anzi, a questo proposito, mi viene in mente che negli ultimi anni, l’interesse di Rodotà si era allargato dai temi strettamente giuridici, a quelli più ampi di natura culturale e morale».
A cosa allude?
«Ai suoi studi, piuttosto sorprendenti in un giurista che all’inizio professava un rigoroso positivismo – il diritto è nella legge, e fuori della legge non c’è diritto – a prospettive di natura cultural-morale. Mi riferisco ai suoi lavori sulla persona umana, sulla dignità, sulla solidarietà, in cui va oltre la prospettiva legata al diritto positivo ».
L’impegno politico ha mai viziato la sua autonomia di giurista?
«Questa domanda evoca in me un’altra grande figura di giurista, che senza tradire mai la sua radice intellettuale, si è dedicato alla politica, Leopoldo Elia. Rodotà, laico rigoroso; Elia, cattolico rigoroso. Nessuno dei due disposto a compromettere la propria libertà intellettuale ed entrambi legati da un rapporto di stima e di collaborazione feconda».
Contro Berlusconi prima e contro Renzi poi, Rodotà ha difeso con la dottrina e in piazza la Costituzione. Battaglie forti le sue. Era in sintonia con lei, no?
«Sì, ma Rodotà ha attivamente partecipato a scritture e riscritture di testi costituzionali. Penso al suo impegno nell’elaborazione della Carta europea dei diritti e alla sua partecipazione ad alcune commissioni Bicamerali per l’ammodernamento della Costituzione».
Quindi non era un fanatico della Carta immutabile?
«No, non lo era. Infatti era favorevole al superamento del bicameralismo. Questa sua posizione è stata strumentalizzata nel dibattito recente. Quello che voleva Rodotà era il potenziamento della democrazia parlamentare. Si parlava, in quegli anni, di centralità del Parlamento. Ovvio che in una riforma che si potrebbe definire della centralità del capo del governo, Rodotà fosse contrario al depotenziamento del Parlamento che ne sarebbe derivato ».
D’ora in avanti ci sarà un vuoto. Pensando a un “compagno di strada” nelle sue battaglie cosa le mancherà di Rodotà?
«Mi mancherà un collega mite, un maestro di quelli d’altri tempi, il cui sguardo era proiettato nell’avvenire. Ce ne fossero di giovani anagraficamente, ma giovani intellettualmente come Stefano Rodotà».
"La passione di un maestro di vita" di Gaetano Azzariti (manifesto 24.6.17) "Ciao Stefano. Con lucidità disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo «possibile»
""Non è facile scrivere queste poche righe in un momento di profondo dolore per la scomparsa di un amico e di un maestro di vita. Stefano Rodotà non era solo il raffinato intellettuale e il protagonista di trent’anni di battaglie civili, era anche un uomo generoso e appassionato.
Il suo immenso carisma credo avesse molto a che fare con la passione che egli riusciva a trasmettere.
Affascinava e coinvolgeva Rodotà quando, con lucida razionalità, disegnava un futuro migliore e allo stesso tempo «possibile».
Ha iniziato ben presto a rappresentare il cambiamento.
Lo ha fatto da studioso, quando giovanissimo ha contribuito in modo decisivo a far cambiare passo alla scienza del diritto civile. Erano gli anni ’60 del Novecento, quando uscirono le sue due prime monografie: una rivoluzione per gli studi del tempo.
Di fronte ad una cultura dei giuristi che ancora si attardava nel formalismo giuridico e faceva resistenza entro uno specialismo che relegava ai margini la costituzione repubblicana, ecco un giovane studioso che dimostrava la necessità del cambiamento. Oltre – e sopra – il diritto civile si staglia la costituzione, l’interpretazione giuridica non può che fondarsi su una legislazione per principi che pone al centro i diritti delle persone reali.
L’attenzione per i diritti ha segnato la vita di Rodotà. Non si è mai sottratto dinanzi alla difficoltà di affrontare certi temi. Dalla proprietà («il terribile diritto») ai beni comuni (una formulazione di cui oggi si abusa, alla quale Rodotà è riuscito per la prima volta e praticamente da solo a dare valore scientifico). Tutti temi trattati con realismo e mai dimenticando la materialità della dimensione dei diritti. In uno dei suoi libri più affascinanti «Il diritto di avere diritti» Rodotà indica la rotta agli studiosi di diritto che si riconoscono entro il progetto del costituzionalismo democratico e pluralista. Bisogna pensare ad un «costituzionalismo dei bisogni», scrive.
Dovremmo meditare a lungo la sua lezione, soprattutto in tempi come i nostri che appaiono dimenticare che è delle persone concrete che bisogna parlare.
Tra le ragioni che hanno portato Stefano Rodotà ad opporsi con grande coraggio e rigore all’ultimo tentativo di cambiare la costituzione v’è sicuramente la percezione che il revisionismo dominante non avesse nulla a che fare con i diritti dei cittadini, semmai ne aumentava la distanza, guardando solo alle ragioni del potere e non invece a quelle dei governati. L’ultima «Carta» di valore costituzionale che è stata scritta porta la sua firma. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, approvata a Nizza nel 2000.
È il catalogo più ampio mai scritto dei diritti e il più impegnato tentativo di far mutare rotta all’Europa: «dall’Europa dei mercati all’Europa dei diritti», come ebbe a scrivere. Dopo la sua approvazione l’Europa «ha voltato le spalle alla Carta» (sono ancora sue parole). Ancora una volta la politica si è dimenticata dei diritti. Ma, se i diritti diventano deboli spetta a nessun altro se non a noi difenderli. «il codice di questa impresa – scrive – ha un nome, e si chiama politica.
I diritti diventano deboli quando diventano preda di poteri incontrollati, che se ne impadroniscono, li svuotano e così, anche quando dichiarano di rispettarli, in realtà vogliono accompagnarli a un malinconico passato d’addio. I diritti, dunque, diventano deboli perché la politica li abbandona. E così la politica perde se stessa, perché in tempi difficili, e tali sono quelli che viviamo, la sua salvezza è pure nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti».
La lotta continua e Rodotà continuerà a farci vedere la rotta. Sit tibi terra levis, Stefano.""
"Fu quella strada che l’Italia non ha mai voluto prendere" di Silvia Truzzi (Fatto 24.6.17)
""È morto ieri a Roma Stefano Rodotà. Aveva 84 anni: lascia la moglie Carla, i figli Maria Laura e Carlo e la nipote Zoe. La camera ardente sarà aperta oggi a Montecitorio, nella Sala Aldo Moro, dalle 16 alle 20, e domani dalle 10 alle 19.
Igrandi scrittori hanno una caratteristica. Vanno dritti al centro della questione e sanno raccontarla. Ai tempi di quel madornale errore che è stato la mancata elezione di Stefano Rodotà al Quirinale, avevamo chiesto ad Andrea Camilleri un commento: “Appena sentii che i 5Stelle proponevano Rodotà, feci un balzo di gioia. Dissi a mia moglie: ‘Che meraviglia, ora agguantano al volo questa liana sospesa, come Tarzan. E’ fatta’. L’alternativa c’era, era Rodotà. Cosa ostava a Rodotà?”. Siamo partiti da qui per provare a raccontare Stefano Rodotà perché, oltre a una figura di statura straordinaria, è stato, purtroppo per l’Italia, anche una strada non presa. E oggi un grande, incredulo, rimpianto.
Cosentino, aveva imparato l’amore per i libri da ragazzino nella casa dei nonni, invasa da volumi catalogati, stanza per stanza, in ordine cronologico. Li divorava con spensierata avidità: letteratura, storia, filosofia. Quelli di diritto invece no, li ignorava proprio. Dalla Calabria, matricola proprio di Giurisprudenza, era partito con premeditazione: non voleva tornare perché la città che aveva scelto, Roma, era eterna e piena di promesse. All’università incontra la politica, come usava una volta: l’Ugi, l’Unione goliardica italiana, dove tra gli altri incrocia Tullio de Mauro e Marco Pannella. Diventa vicepresidente del parlamentino Ugi nel momento in cui Togliatti decide di sciogliere l’organizzazione universitaria comunista e farla confluire nella laica Ugi: i primi transfughi sono due ragazzi che si chiamano Alberto ed Enzo. Di cognome, Asor Rosa e Siciliano.
A ventitré anni conosce Mario Pannunzio ed esce il primo articolo sul Mondo, titolo “L’ideale dei mediocri.” E qui è un destino che si scrive: Stefano Rodotà è stato tutto fuorché mediocre e loro, i mediocri, gliela hanno fatta pagare ogni volta che si è presentata un’occasione. Quando Il Mondo diventa il motore della scissione nella sinistra liberale e della costituzione del Partito radicale, lui che non aveva mai bazzicato nei partiti, trova l’esperienza interessante. S’iscrive perfino al partito, scelta che non ripeterà mai più.
Bisogna sapere che la frase “Turatevi il naso e votate i laici alleati con la Dc” è di Gaetano Salvemini: l’aveva pronunciata ai tempi della Legge Truffa, cui il professore strenuamente si opponeva. Era una battaglia familiare: sua moglie Carla aveva scritto un libro sull’argomento. Ma – al peggio non c’è mai fine – si troverà a rimpiangere quella legge, ai tempi del Porcellum: “Quanto ci eravamo sbagliati! Paragonato alle attuali proposte era un modello di democrazia”.
Negli anni Sessanta il professore, in parallelo con una brillantissima carriera universitaria che lo porterà a girare il mondo, comincia a scrivere stabilmente sui giornali come commentatore: prima sul Globo, diretto da Antonio Ghirelli, e per Il Giorno di Gaetano Afeltra, poi su Panorama, dove ha tenuto una rubrica settimanale fino all’avvento di Berlusconi. Dopo, Repubblica, di cui è stato non solo una firma, ma un pezzo di anima fino alla fine. La politica però è sempre lì: alla fine degli anni 70 (anni bui, in cui lui ha il coraggio di opporsi alle tentazioni autoritarie, in nome dei diritti e delle garanzie) accetta la candidatura come indipendente nel Pci, dopo aver rifiutato le avances di Marco Pannella.
Un giurista in Parlamento ha carte da giocarsi, ma guardate l’umiltà con cui raccontava i primi tempi a Montecitorio: “Ci ho messo quasi un anno a capire dove stavo: c’era un’altissima professionalità, non si improvvisava. Si studiava, non si andava a orecchio: bisognava stare al passo”. Dopo la Bolognina, diventa il primo presidente del Pds e la strada non è in discesa, gli fanno ogni tipo di sgambetto: “Chi aveva in mano il partito, voleva gestirlo esattamente come prima. La verità è che mi hanno sempre considerato un corpo estraneo”. Così estraneo che nel giugno del ’92 bisogna eleggere il presidente della Camera e il candidato è proprio il professore, che è già vicepresidente a Montecitorio, e però non ottiene i voti sufficienti. Al quarto scrutinio il partito cambia cavallo: il nuovo nome è Giorgio Napolitano.
Il giorno dopo La Stampa titola: “Sì a Napolitano, sgambetto a Rodotà. Il presidente del Pds, furibondo: lascio tutte le cariche”. In un sommario il giornale sottolinea: “L’anziano leader dei miglioristi si è commosso”. Secondo i retroscena dell’epoca il Pds ha fatto un patto con la Dc per far fuori Rodotà (Occhetto, invece, sostiene sia stato Bettino Craxi a impallinarlo). Comunque, alle elezioni del ’94 non si ricandida. Ma c’è molto altro da fare: dal 1997 al 2005 è il primo presidente del Garante per la protezione dei dati personali, fino al 2002 presiede il gruppo di coordinamento dei Garanti per il diritto alla riservatezza dell’Ue. Il professore – che insegna diritto civile alla Sapienza – è un pioniere degli studi legati alla privacy e alle tecnologie. Il primo libro sul tema risale a un tempo in cui i computer nemmeno si chiamavano così: Elaboratori elettronici e controllo sociale (Il Mulino, 1973). Molti altri ne seguiranno, la Costituzione sempre a far da bussola.
Gli anni passano, il professore scrive altri libri, interviene nel dibattito pubblico, continua a insegnare, nelle battaglie importanti non si tira mai indietro. Nel 2012, un anno prima delle elezioni per il Colle, per la prima volta al nostro giornale risponde, sorridendo, a una domanda su una sua ipotetica candidatura: “Cosa vuole, se ne dicono tante”. Quell’ipotesi diventa realtà, ma all’ultimo – sempre gli stessi, sempre i cosiddetti “compagni” – gli voltano le spalle. Piuttosto che un signore innamorato della Costituzione e dei suoi valori s’inventano un Napolitano bis. Il mondo è dei miglioristi, raramente dei migliori.""
"La voce ironica che difendeva tutti" di Tomaso Montanari (Fatto 24.6.17) "Riferimento - Per strada lo chiamavano “presidente”. Gli italiani lo avrebbero voluto al Colle. La voce ironica che difendeva tutti"
""Si serra la gola alla notizia che non ascolteremo più la voce ferma, affettuosa e ironica di Stefano Rodotà. E si sente che da oggi, senza quella voce, siamo ancora un po’ meno sovrani: un po’ più indifesi, più soli, più fragili. Quando capitava di camminare per strada in sua compagnia, invariabilmente succedeva che un cittadino si avvicinasse per salutarlo chiamandolo ‘presidente’. E non si riferiva alle sue tantissime presidenze (per esempio a quella del Partito democratico della Sinistra, in un’epoca politica che oggi sembra remotissima), ma al fatto che per molti, per molti di noi, Stefano Rodotà era il presidente morale della Repubblica. Non c’erano polemica, o faziosità in questo dolce legame sentimentale: c’era invece un profondo senso di gratitudine. Tutti ricordiamo quell’aprile di quattro anni fa, in cui il nome di Rodotà risuonò per 217 volte nell’aula di Montecitorio dove si eleggeva il Capo dello Stato. E a ogni lettura l’immaginazione correva verso un’altra Italia: un’Italia più libera, più dignitosa, più solidale. L’Italia della Costituzione e del popolo sovrano.
L’Italia che tante volte è scesa in piazza per questa Costituzione e questa sovranità: e Libertà e Giustizia ricorda con profonda gratitudine, tra tante occasioni di incontro e lotta comune, la presenza di Stefano alla grande manifestazione romana dell’ottobre del 2013 per difendere la “via maestra” della Costituzione.
Il Rodotà politico era la naturale – ma quanto coraggiosa! – conseguenza dello studioso che non ha usato la sapienza del diritto per rendere più potenti i detentori del potere, ma per restituirne un po’ agli oppressi, agli ultimi. Se dovessi indicare il nucleo della sua altissima lezione direi che ci ha insegnato – sono parole sue – “l’irriducibilità del mondo al mercato”. La più essenziale delle lezioni di cui ha bisogno il mondo di oggi.
Tra i beni comuni che è vitale sottrarre alla dittatura del mercato, Rodotà ne indicava uno modernissimo quanto essenziale: la Rete. “In questo spazio – ha scritto – tutti e ciascuno acquistano la possibilità di prendere la parola, acquisire conoscenze, creare idee e non solo informazioni, esercitare il diritto di critica, discutere, partecipare alla vita pubblica, costruendo così una società diversa, nella quale ciascuno può rivendicare il suo diritto ad essere egualmente cittadino. Ma questo diviene più difficile, se non impossibile, se la conoscenza viene recintata, affidata alla pura logica del mercato, imprigionata da meccanismi di esclusione che ne disconoscono la vera natura e così mortificano una ascesa che ha fatto della conoscenza in rete il più evidente dei beni comuni”. Tra i tanti diritti al cui studio e alla cui difesa Rodotà ha dedicato una lunga vita felice è forse proprio il diritto alla conoscenza quello che oggi appare il fondamento più essenziale, e insieme più fragile, della nostra democrazia.
Il modo migliore per ricordare questo nostro grande amico, per provare ad essergli grati, è continuare a lottare per costruire, con le sue parole e le sue idee, “una società diversa”.""