Primo Levi scrittore ritrovato
Articolo di Marco Belpoliti e Wlodek Goldkorn (L’Espresso 23.6.)2019
) “Non è stato il solo testimone di Auschwitz ma ha indagato l’animo umano. A un secolo dalla nascita, è il momento di riconoscere in lui un autore universale che parla di vita e non di annientamento”
“”Nella scrittura il racconto della verità trasfigurata dallo sguardo del narratore è più reale del reale. Per capire cosa sia accaduto nei lager serve la letteratura
Primo Levi per decenni è stato celebrato come un grande testimone della Shoah, un’icona dell’antifscismo, custode della preziosa memoria, diventato scrittore per via delle esperienze ad Auschwitz e quindi uno scrittore sui generis. Il testimone tuttavia è una persona che rende conto, nei tribunali, degli eventi cui ha assistito, con tanto di date e circostanze. Il testimone aiuta il giudice, o lo storico, a ricostruire un evento nei dettagli, quasi sempre in ordine cronologico. Spetta a chi ascolta dare un senso: giuridico, storiografico, politico, alla testimonianza. Lo scrittore invece procede in un modo contrario rispetto al testimone, costruisce un mondo attraverso un sistema di simboli, segni, metafore, libero di usare frammenti di ricordi, di ricomporli in un ordine che corrisponda alle emozioni e non alle misure convenzionali del tempo. E lo fa per indagare sulla condizione umana e per dare un senso al mondo e alle cose prime e ultime. Oggi, a cent’anni dalla sua nascita, il compleanno cade il 31 luglio, possiamo sentirci liberi di affermare che Levi è uno dei più grandi scrittori del Novecento e non un testimone?
Lo chiedo a lei, Marco Belpoliti, che è il curatore delle opere di Primo Levi.
Belpoliti Già negli anni Novanta c’era un gruppo di scrittori e poeti - ne cito alcuni: Antonella Anedda, Eraldo Affinati, Stefano Bartezzaghi, Domenico Starnone, Massimo Raffaeli, Dario Voltolini, di sinistra, antifascisti nati negli anni Cinquanta e Sessanta - che avevano capito quanto Levi fosse uno scrittore e non solo un testimone, e quanto la letteratura italiana e quella mondiale gli siano debitrici, non perché parlasse della Shoah, termine che per altro non usa nei suoi testi, ma per come scrivesse del mondo. Levi è uno scrittore contemporaneo, da un lato ottocentesco, classico, dall’altro straordinariamente postmoderno. Per postmoderno intendo la citazione, il riuso dei testi, l’ironia, la parodia. Lui parodiava i testi che citava.
Goldkorn Un esempio?
Belpoliti Il centauro. La figura metà uomo metà cavallo della mitologia greca, spesso utilizzata da altri, nei romanzi di fantasia, di invenzione, di intrattenimento, gli dedica un racconto, “Quaestio de centauris”, molto importante. Anche Levi lo usa, ma per parlare della condizione esistenziale dell’uomo dopo Auschwitz, della sua dualità.
Goldkorn La necessità di raccontare è comune a tutti i superstiti e i sopravvissuti. Ma, nel caso della Shoah, si trattava di cose inenarrabili e inimmaginabili, eppure accadute. E non esisteva un canone letterario di questa materia. Molti testi, prodotti quindi subito dopo l’Olocausto sono stati scritti usando iperboli, frasi fatte, citazioni di letteratura dell’orrore, oppure in un idioma militante, socialista degli anni Trenta. Levi invece intuisce che di fronte a tutto quello che gli è accaduto, lui, da scrittore vero, deve creare una mitologia. Quello che racconta è accaduto, ma necessita di una mitologia come sulla crudeltà del destino, sull’importanza della fortuna e dell’astuzia. “Se questo è un uomo”, il suo capolavoro, è un libro non solo su Auschwitz, ma è un magnifico testo sulla catastrofe degli umani, sapendo che la catastrofe non è una parentesi nella storia e nelle biografie, ma svela tutte le contraddizioni della condizione umana.
Belpoliti Infatti, il libro si intitola “Se questo è un uomo” e non “Se questo è un ebreo”, perché per Levi è chiarissimo il fatto che l’opera dei nazisti consisteva nel tentativo di cambiare, attraverso il sistema dei Lager, la natura umana. I nazisti, Levi lo capisce, non vogliono solo ammazzare tutti gli ebrei del mondo, ma intendono mutare i dati antropologici dell’universo umano. Il capitolo “I sommersi e i salvati” in “Se questo è un uomo”, è un testo di una grande profondità filosofica. Ed è un capitolo in cui l’autore parla di un “esperimento biologico e sociale”. Sembra anticipare le opere di Michel Foucault sulla biopolitica. Levi aveva un suo côté positivistico darwiniano. E così interpretava il Lager come un tentativo di trasformare il genere umano. La portata radicale dell’esperimento nazista poteva intuirla solo un uomo forma- tosi come scienziato e scrittore in potenza.
Goldkorn Possiamo pensare che non sia stato Auschwitz a trasformare Levi in uno scrittore, ma al contrario Levi ha potuto raccontare il Lager perché aveva le capacità di osservazione di un letterato?
Belpoliti Su questo non c’è dubbio. Noi non sappiamo che genere di scrittore sarebbe diventato senza l’esperienza di Auschwitz. Però qualcosa si vede in “Il sistema periodico” o nei racconti di fantascienza, o fantabiologia, come li chiamava Italo Calvino, scritti con lo pseudonimo Damiano Malabaila.
Goldkorn Uno scrittore di fantasia, dotato di un’immaginazione fuori dal comune.
Belpoliti Levi era attentissimo ai dettagli. Ne cito uno. La questione di Mahorka, il tabacco dozzinale che ad Auschwitz serviva da moneta di scambio tra i deportati e con il cantiere della Buna. Con tutto quello che succedeva nel Lager, tre pagine per parlare delle quotazioni in una specie di Borsa nera, di Mahorka? Ma non è strano, Levi lavora con il dettaglio per parlare del mondo. Tiene sempre i piedi per terra, ma è molto fantasioso.
Goldkorn In “Se questo è un uomo” c’è una scena di impiccagione. Simili scene le raccontano quasi tutti i testimoni. Elie Wiesel, narrando una storia analoga, si chiede dove sia finito Dio: risponde sul patibolo. Levi dice che chi ha assistito a questa scena e ha dovuto chinare la testa senza reagire non è più un uomo. Capisce che il nichilismo è diventata realtà. Non c’è speranza nel racconto. Dio non gli interessa.
Belpoliti È un uomo che non crede in Dio, lo ha detto in più di una intervista, è un tori- nese di cultura illuministica e positivista, ed è socialista. Un borghese che vive del proprio lavoro. È pure antifascista e anche un ebreo, ma laico. Un fenomeno unico, nel panorama italiano.
Goldkorn Un chimico torinese, ebreo integra-issimo. In nessun paese del mondo gli ebrei erano integrati come nell’Italia post unità nazionale, e vede nel Lager un universo che non conosceva, di ebrei dell’Est. Gente che parla lo yiddish, che porta nel corpo la memoria dei pogrom. Levi osserva il mondo di Auschwitz come un entomologo. Ne fa parte, perché è prigioniero e vittima. Ma mantiene distanza. È quella distanza che gli permette di capire il Lager?
Belpoliti Levi sembra un antropologo venuto da un altro pianeta su una terra incognita. In questa terra ci sono due entità: i carnefici e le vittime. Vede che cos’hanno in comune le vittime e i boia: l’umanità. Alla fine de “I sommersi e i salvati”, dice: io di mostri non ne ho visti tanti, suggerisce che le SS fossero persone educate male, nelle scuole dove si insegnava ubbidienza e non pensiero critico. Levi era diventato scrittore perché gli interessava capire come cambiavano le cose. Per questo era capace di raccontare la bestialità e l’asservimento dei kapo, non come fatto morale ma come dato antropologico. Sapeva cosa era l’uomo. E poi era un chimico. Ave- va fiuto. Alla lettera. All’epoca non c’erano macchinari per fare il mestiere di chimico: il chimico, per sapere le cose, doveva avere un buon naso. Lui ce l’aveva.
Goldkorn Di “Se questo è un uomo” ci sono due versioni. La prima, del 1947, dopo la poesia, comincia con la descrizione della situazione degli ebrei italiani a Fossoli nel 1944. La seconda, canonica, del 1958 inizia invece (sempre dopo la poesia) con le parole: “Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza...”. Il primo incipit non è bello né accattivante; il secondo allude all’epica classica e pone l’eroe, il nar- ratore, al centro.
Belpoliti Dal 1947 e fino a metà degli anni Cinquanta Levi raffina le strategie di narrazione. Un esempio. Nella prima versione, Alberto (Alberto dalla Volta, compagno di prigionia di Levi, ndr) è solo una delle persone citate, mentre nella seconda viene raccontato come il miglior amico, al centro della storia nei punti salienti. La spiegazione è semplice: Levi aveva nel frattempo cominciato a scrivere racconti. E ha progettato il secondo romanzo “La tregua”. Ha lavorato sulla qualità della scrittura di “Se questo è un uomo”, sulla struttura e sull’architettura di quel testo perché aveva deciso di essere scrittore appunto. Faccio un altro esempio. Il capitolo di “Se questo è un uomo” dove parla dei traffici dei manici di scopa, nel capitolo “L’ultimo”. Quelle pagine seguono la scena di impiccagione di cui abbiamo parlato prima. Abbiamo detto che in quella scena non c’è trascendenza né speranza, solo la morte e il Nulla. E allora perché dopo quella narrazione Levi decide di raccontare episodi che riguardano i traffici delle povere merci nel Lager? Per rimettere la persona umana, che traffica, e quindi si occupa della vita e del futuro, al centro. Per parlare della vita e non più dell’annientamento. È un procedimento da grande scrittore, non da testimone che racconta gli eventi in ordine cronologico.
Goldkorn Forse la scena più bella e che meglio dà l’idea dell’uomo al centro dell’universo, anche nel Lager, è il racconto dove il narratore, mentre vanno a prendere la zuppa, recita al compagno di detenzione, Pikolo, Il canto di Ulisse di Dante. Levi fa vedere le stelle, il mare, fa respirare l’aria di libertà. Possiamo ipotizzare che almeno in parte quella scena è immaginata?
Belpoliti Jean Samuel, il Pikolo, non si ricordava di quell’episodio, ha detto dopo la morte di Primo. Probabilmente Levi ha parlato a Samuel di Dante, ma forse non in termini in cui lo ha scritto. Ma la storia è talmente bella che va approfondita. Levi dunque voleva citare Dante, perché era il suo punto di riferimento costante, era l’uomo in esilio, l’uomo che fugge, l’uomo libero. E poi c’è Ulisse, l’uomo che sfida gli déi. Tutto quello che ha scritto Levi è ancorato nella tradizione della letteratur italiana, in ogni riga c’è l’eco di un autore che lui ha frequentato, e credo che con il Canto di Ulisse volesse parlare pure della bellezza della lingua italiana. Aggiungo: la letteratura è un luogo della libertà, questo ci dice Levi. Ma se è così, la letteratura produce la realtà. Nella letteratura il racconto del reale, trasfigurato dallo scrittore, è più reale del reale.
Goldkorn Levi è Ulisse. È astuto, fedele alla sua biografia, determinato a tornare a casa. Ha la sua Itaca in Corso Umberto a Torino. “La tregua”, in cui narra il vagabondare da Auschwitz a Torino, è la storia di Ulisse dopo Auschwitz. E in quel romanzo si manifesta il Levi creatore di una mitologia. È curioso quanto non racconti di Katowice, città dove soggiornò per più di tre mesi nel campo pro- fughi, perché è un luogo che si presta poco a una narrazione epica e quanto invece as- sume toni quasi atemporali parlando della Russia. Vi incontra uomini e donne vestiti di pelli d’animale. Vede boschi dove ci si perde come Hänsel e Gretel nella favola dei fratelli Grimm.
Belpoliti Un libro riscritto due volte. Nel dattiloscritto che ho esaminato, ho trovato che aveva pensato di iniziare la storia con il Greco, suo compagno di viaggio. E poi ha riscritto anche il capitolo che si intitola così. Ha cassato un inizio meno letterario. Ha deciso di cominciare con due capitoli che appartenevano alla realtà di Auschwitz, là dove parla della salvezza e l’altro dedicato ai bambini e dove c’è l’episodio di Hurbinek. Li aveva già scritti all’epoca di “Se questo è un uomo”. Non butta nulla e poi ha pensato quel secondo libro come continuazione del primo, anche se letterariamente non lo è. Pensa da scrittore. Ha anche calcolato la lunghezza dei due libri contando le parole e le lunghezze dei capitoli: sono lunghi uguali. Ragiona come un chimico e tiene conto dei lettori.
Goldkorn Un raccontatore di storie mentre il linguaggio è autonomo rispetto all’autore. La capacità di farlo trasforma un narratore in un grande scrittore.
Belpoliti Per questo, considerare Levi uno scrittore significa porre di nuovo la questione del testimone. Ora la grande sfida è prendere la figura dello scrittore, liberata dal ruolo del testimone, e reinserirla nel discorso della te- stimonianza. Un compito non facile, ma decisivo per la testimonianza e per il nostro futuro di memoria viva. Ci serve la letteratura. La letteratura potenzia lo sguardo e lo rende acuto. Levi nel 1947 non usò il linguaggio neorealista allora di moda, ma il linguaggio classico della borghesia. Forse per questo Einaudi si rifiutò di pubblicarlo. Per capire cosa sia accaduto ad Auschwitz ci vuole la lettera- tura, perché solo la letteratura ci permette di comprendere cose che i realisti non riescono a immaginare. Levi prova che Auschwitz può essere narrata, però lo può fare uno scrittore, un artista, un musicista. La letteratura è il prosaico portato al sublime.
Goldkorn Abbiamo parlato di Levi narratore di Auschwitz, non perché gli altri libri siano meno importanti (“La chiave a stella” è un capolavoro), ma per sottolineare quanto ha appena detto: solo la letteratura può dare senso all’inenarrabile. Perché Levi diceva di non sentirsi del tutto scrittore?
Belpoliti Un po’ perché era rimasto traumatizzato dal rifiuto di Einaudi. Ma soprattutto perché da antifascista temeva che, presentandosi solo come scrittore, la forza della sua testimonianza potesse essere messa in dubbio. Era un problema politico e culturale, e lo sentiva molto, perché, ri- cordiamolo, nessuno, subito dopo la guerra, voleva ascoltare quanto era accaduto nei Lager. Gli scrittori inventano. Levi non inventava, costruiva la memoria sotto forma di una prosa sublime.
La chimica, l’Olocausto e la letteratura
Di Federico Marconi
È il 31 luglio 1919. In una Torino alle prese con la febbre spagnola e scossa dai primi moti del Biennio Rosso nasce Primo Levi, primogenito di Cesare Levi ed Ester Luzzatti, entrambi di religione ebraica. Primo è gracile e di salute spesso cagionevole: così nei primi anni non frequenta la scuola con costanza, costretto a ricorrere a insegnanti privati. Nel 1934 inizia il liceo, il Massimo D’Azeglio, già sede di professori antifascisti ma allora politicamente “epurato”. Studia con profitto: sempre buoni i voti nelle materie scientifiche, meno quelli in italiano. Anche per questo, presa la licenza, nel 1937 decide di frequentare il corso di laurea in Scienze all’Università di Torino. Giusto in tempo: un anno dopo il regime promulga le leggi razziali che non gli avrebbero permesso di iscriversi. Levi si scopre diverso, discriminato, un nemico anche lui che era stato balilla prima e avanguardista poi.
Nel 1941, quando termina gli studi, sul diploma di laurea insieme alla lode ci sarà la menzione della “razza ebraica”. Inizia subito a lavorare e, nel 1942, si trasferisce a Milano. Lì inizia a militare nella Resistenza: dopo la caduta di Mussolini e l’armistizio di Badoglio, con l’inizio dell’occupazione nazista del Nord Italia si rifugia sulle montagne della Val d’Aosta.
Serve a poco: il 13 dicembre 1943 viene catturato e spedito nel campo di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi.
Da lì, pochi mesi dopo, è caricato su un treno direzione Auschwitz. Levi ha studiato, è considerato manodopera specializzata, per questo i tedeschi lo fanno lavorare nell’impianto chimico di Buna. È uno dei fattori che contribuiranno alla sua salvezza, insieme alla scarlattina: si ammala poco prima dell’arrivo dei russi, il 27 gennaio 1945, e le SS non lo portano con loro. Inizia allora un lungo giro d’Europa al seguito dei sovietici, raccontato ne “La Tregua”. Torna a Torino nel 1946 e inizia subito a scrivere la sua esperienza di deportato: nasce così “Se questo è un uomo”. Rifiutato da Einaudi, il libro è pubblicato da De Silva nel 1947: viene accolto da buona critica, ma delle 2500 copie stampate ne vengono vendute poco più della metà.
Levi, deluso, continua a scrivere ma torna a lavorare in fabbrica. Solo nel 1956 ritrova fiducia nella sua penna e ripropone il libro a Einaudi, che questa volta lo pubblica anche per l’interesse suscitato da Levi dopo una mostra sulla deportazione negli anni della guerra. Nel 1961 inizia a scrivere “La Tregua”, che pubblica due anni dopo e gli fa vincere il primo Premio Campiello.
Negli anni Settanta pubblica “Il sistema periodico” (1975) e “La chiave a stella” (1978), frutto dei suoi viaggi a Togliattigrad, con cui vince lo Strega. Poi è la volta di “Se non ora, quando”, del 1982, romanzo con cui vince di nuovo il Campiello e de “I sommersi e i salvati” (1986), da molti considerato il suo capolavoro intellettuale.
È il suo ultimo libro: malato e depresso, l’11 aprile 1987 si getta nella tromba delle scale del palazzo dove era nato 67 anni prima.””