(La storia insegna) Di fronte all’ultima scadenza il coraggio di uno sguardo sereno
Articolo non recente di Adriano Prosperi (manifesto 22.4.08)
“ Il libro di Iona Heath “Modi di morire” (traduzione italiana a cura di Maria Nadotti, postfazione di John Berger. Bollati Boringhieri, Torino 2008) porta nell’Italia delle polemiche su eutanasia e aborto i pensieri di una diversa cultura. Porta soprattutto una voce pacata che parla serenamente della morte e del rapporto che un medico dovrebbe avere coi morenti. Ora in quest’Italia dei nostri tempi non solo è sempre più difficile vivere ma è anche e soprattutto difficile morire. Come tutti sanno, da noi stenta e entrare nel costume civile la liceità dei mezzi per diminuire la sofferenza dei malati terminali; ed è emerso in casi clamorosi quanto sia arduo disporre della propria vita con l’aiuto dei medici anche quando la malattia non ha nessuno sbocco salvo la morte. Le autorità della Chiesa influenzano in tanti modi i comportamenti dei medici e il funzionamento delle istituzioni por imporre a tutti un’idea della vita e del dolore che appartiene ai soli cattolici, ma che intanto invade il terreno della sanità pubblica e influenza il comportamento degli operatori sanitari e delle autorità civili.
Se poi parliamo di sanità pubblica, quella che al suo nascere nel Settecento il medico tedesco Johann Peter Frank definì la “polizia medica”, ci si chiede che cosa sia più efficace davanti all’emergenza , se i sussurri o le grida. Le grida riempiono le cronache recenti non solo per i casi di criminalità e di corruzione, ma anche per l’ordinaria carenza dei servizi stessi. Naturalmente ci sono anche i successi del sistema. Nella faccia della medaglia che viene più volentieri esibita questi successi sono riassunti in un dato: l’Italia è il Paese che gode il primato della longevità. La vita si allunga, non è ancora l’immortalità ma è pur sempre un Paese in quella direzione.
Sulla base di queste statistiche, accompagnate dalle voci suadenti di membri dell’establishment politco-sanitario, il bilancio della sanità pubblica si è irrobustito e con esso gli appetiti della mafie. Dunque bene e male sono legati a doppio filo. Ma è poi vero bene quel bene? la domanda è legittima davanti al frastuono di un partito trasversale al quale è facile pronosticare il successo , benedetto com’è da destra e da sinistra, da clericali e atei: il partito della vita. Tutti vogliono la vita, tutti la promettono o almeno si impegnano a difenderla a ogni costo. Chi vuol morire è un nemico pubblico: anche la Chiesa cattolica, impegnandosi nella battaglia per la vita (quella terrena, di questo mondo) sembra aver messo da parte quella capacità di ascoltare i morenti che era un tempo la prerogativa dei sacerdoti. C’è chi nasconde la morte con metodi che ricordano il capolavoro di Gogol, Anime morte: in Italia sembra che il nucleo speciale spesa pubblica della Guardia di Finanza abbia scoperto 379.000 morti assistiti, cioè defunti a cui lo Stato corrisponde ancora la pensione. Non c’è da stupirsi che un imprenditore della politica sanitaria in Calabria praticasse sul pino industriale questo antico metodo trasferendo altrove come ancora vivi i degenti che morivano nel suo ospedale.
In un Paese così belluinamente vitale è impopolare e maleducato parlare della morte, anzi addirittura dei modi di morire. E tuttavia proprio su questo ci invita a riflettere il piccolo libro di Iona Heath. Lo fa in tono sommesso, con pagine delicate e citazioni di poeti. Sussurri: ma dopo averlo letto bisogna ammettere che c’è un buon fondamento nell’antica massima secondo la quale le cose più importanti vanno dette abbassando la voce. Niente di più naturale, di più generalmente umano della morte. Ma a fronte di numeri che ci dicono che ogni anno una percentuale elevata della popolazione mondiale è toccata da vicino dalla morte, la risposta pubblica resta divisa tra sensazionalismo e silenzio. Non è la prima volta che siamo costretti a riflettere su questo fenomeno: anni fa furono un sociologo americano (Geoffrey Gorer) e uno storico francese (Philippe Ariès) a notare che la società moderna tratta il morente come una presenza oscena, da nascondere il più possibile per non disturbare una vita sociale dominata dai miti dell’efficienza e del successo. Di fatto la morte dei nostri tempi e dei nostri Paesi non è più la condizione naturale del vivente, il compimento inevitabile di un’esistenza nel luogo e tra le cose e le persone della vita di ogni giorno. Storie di criminalità sanitaria. Oggi nel mondo ci sono ancora società e culture arcaiche nei Paesi cosiddetti arretrati dove si muore nei luoghi dove si è vissuti , accanto a persone e cose familiari, con un volto amico che ti sta accanto. Nelle società del mondo ricco e progredito – dunque anche in Inghilterra, anche in Italia – si muore solo negli ospedali e da soli, fra quattro mura o dietro un paravento se in corsia; e, se va bene, con accanto un medico. E’ per questo che il medico deve imparare a svolgere il suo compito:
che è quello di lottare contro il cedimento del corpo, finché può e finché la cosa ha senso. Il medico sa che la morte è inevitabile: deve imparare ad affrontarla, non solo, ma anche a difendersi dal senso di colpa che il diniego generalizzato della morte gli scarica sulle spalle e che prende sempre più spesso la forma di accuse, processi, richieste di risarcimenti, diffamazioni mediatiche.
Quello che dice la dottoressa Iona Heath rientra perfettamente nella cornice ordinaria di un sistema capace di produrre da noi – solo da noi? – le storie turpi della criminalità politico-sanitaria: persone che muoiono nelle stanze di ospedale senza nessuna presenza umana, sballottate, trasferite, trattate come rifiuti. Certo, il sistema italiano ha raggiunto una dimensione criminale speciale, in cui si sposano arretratezza civile e grandi modernità delle tecniche. Qui la politica come corsa verso i posti, cioè verso il danaro, di cui Vittorio Foa ha parlato nel suo ultimo libro sul degrado del linguaggio che accompagna il degrado del paesaggio sociale (con Federica Montevecchi, Le parole della politica, Einaudi,Torino, 2008), ha trovato nella sanità pubblica l’eldorado della ricchezza senza misura dove nel futuro dei signori della salute c’è la prospettiva di quel sofà imbottito di pietre preziose che divenne celebre ai tempi del caso De Lorenzo. E questo spiega perché ai primari degli ospedali pubblici italiani sia richiesto l’omogeneità col partito del cosiddetto “governatore” (quante parole della puritana democrazia americana coprono oggi lo stravolgimento della Costituzione italiana?). le statistiche delle appartenenze politiche dei primari degli ospedali pubblici italiani sono il prodotto di un sistema che da un lato ci promette la sconfitta del cancro entro un decennio e dall’altro cresce esso stesso come un cancro inarrestabile. Ebbene, tutto questo non è un problema solo italiano. Basta leggere la limpida e pacata diagnosi di Iona Heath: “L’arroganza della medicina scientifica alimenta crescenti aspettative pubbliche di perfetta salute e tenace longevità e questi processi sono sfruttati con avidità da giornalisti e uomini politici e, soprattutto, dall’industria farmaceutica”. Già: a proposito, perché si parla così poco in Italia dell’industria farmaceutica e delle aziende fornitrici degli ospedali pubblici?
In materia di salute e malattia Iona Heath dice sommessamente cose che suonano come smentite inesorabili delle certezze stampate sui pacchetti di sigarette e iscritte nell’intolleranza sociale crescente verso ogni genere di rifiuti – soprattutto verso il più intollerabile dei rifiuti, il morente. Queste pagine cancellano dolcemente ma fermamente le nostre più radicate illusioni: “Ci piace credere che, se ci comportiamo bene, se mangiamo con moderazione i cibi giusti, se facciamo esercizi fisici con regolarità, e così via avremo in premio una vita lunga e sana”. Non per niente chi si ammala è visto come colpevole. E’ nella sua condotta di vita che il nostro invincibile ottimismo cerca le tracce degli errori di cui pagherà il fio, così come il peccatore del tempo antico pagava col mal francese le colpe del sesso. Questa illusione ha una così robusta radice che ci vorrà ben altro che queste paginette per metterla in crisi. Anche perché il sistema della comunicazione pubblica ci chiude gli occhi e ci impedisce di riconoscere n el cancro quel “promemoria sconvolgente dell’ostinato grado di imprevedibilità, incertezza e ingiustizia della condizione umana” di cui ha scritto Arthur Klainmann. Supremamente ingiusta, la morte sconvolge ogni tentativo di fare quadrare i conti e di trovare un senso alle cose della vita. Ressta salda e incancellabile la realtà di una morte dalla quale, come scrisse san Francesco d’Assisi, nessun uomo vivente può scampare. Ma non è per il lettore qualunque che Iona Heath dice cose come queste, tanto evidenti quanto difficili da accettare: il suo libro si rivolge soprattutto ai medici. Sono loro che debbono imparare a svolgere il compito più impegnativo che li attende, quello di assiste prima di tutto i morenti. Delegati ultimi del mondo di affetti e di relazioni di chi muore, dovranno tutto costruire coi pazienti un rapporto di una certa continuità: è tragico che le esigenze della medicina parcellizzata vadano in direzione opposta obbedendo alla norma della competenza tecnica nei confronti di un corpo concepito come macchina e passato di mano in mano a seconda del pezzo da aggiustare. Di quel rapporto tra due esseri umani fa parte la parola e ancor più lo sguardo; il medico deve imparare a non distogliere lo sguardo dal morente, come viene istintivo fare: lo sguardo è il tramite di un rapporto vivo tra vivi (lo ha scritto Tolstoj in Anna Karenina), negare lo sguardo a chi muore significa annunciargli che lo si considera già morto. I medici debbono fare di più: debbono, per esempio, imparare dai poeti a inserire tra le cure palliative la capacità di aiutare i pazienti a rielaborare la memoria del passato rievocando tutte le cose belle che una vita ha avuto – quelle cose che vengono dette soltanto ai funerali e che il morto non potrà più ascoltare. Dagli scrittori e dai poeti il medico potrà imparare la capacità di costruire quel senso del rapporto tra passato, presente e futuro di cui il morente sente l’intollerabile venir meno. Un’eredità di memorie. Al lettore italiano viene in mente un memorabile “soliloquio” pubblicato dall’ormai anziano Benedetto Croce nei “Quaderni della Critica”: vi si parlava dell’imparare a morire. Nella cultura italiana si affacciava così la riflessione piana e serena di un vecchio uomo che pensava all’avvicinarsi della morte come al chiudersi di una lunga giornata di lavoro e vi si preparava ponendo quella scadenza al centro dei propri pensieri, senza cercare altri conforti che quelli della coscienza severa del compito svolto e della trasmissione tutta e solo terrena di una eredità di valori e di memorie. Era un testo insolito nella cultura italiana. Qui nei secoli dell’età moderna i modelli narrativi esemplari delle morti eroiche degli antichi hanno lasciato il posto alle morti sante dei cristiani e ai più recenti modelli del morire per la patria o per altre più o meno generose idealità. Per la morte come evento normale e obbligato di ogni vivente l’editoria italiana ha lungamente offerto le arti del “ben morire” scritte da uomini di chiesa, dal domenicano Savonarola al santo vescovo settecentesco Alfonso de’ Liguori: con quelle cose in mano si veniva educati a combattere la paura delle cose ultime – la morte, il Giudizio di Dio – con la speranza cristiana della vita eterna dell’anima nell’aldilà. Ma in quel genere di disincantata meditazione che l’essere umano deve alla sua condizione di mortale e che può essere condotta anche senza i conforti della religione, forse solo Leopardi con la sua versione del manuale di Epitteto ha fornito una traccia. Viene così la curiosità di vedere quante voci italiane hanno risuonato nella memoria di Iona Heath durante i suoi anni di riflessione e di esperienze ospedaliere. La risposta è in un brevissimo elenco: Dante Alighieri, Guido Ceronetti, ma soprattutto Primo Levi, che in Se questo è un uomo parlò della finitezza della vita umana come “limite a ogni gioia ma anche a ogni dolore”.