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26ago/19Off

Ma l’Amazzonia e’ di tutti

Articolo di Federico Rampini (Repubblica 23.8.19) “Vasti incendi stanno divampando in un patrimonio dell’umanità. Brucia il più grande generatore d’ossigeno e “assorbente” di CO , la foresta 2 dell’Amazzonia.“

“”La tragedia ci interpella tutti e pone un problema di principio: un simile tesoro, da cui dipende l’abitabilità della terra, può essere affidato alla sola potestà del presidente brasiliano Jaìr Bolsonaro? Dilemma tanto più acuto in quanto questo leader di estrema destra, negazionista sul cambiamento climatico, ha mosso grottesche accuse alle Ong ambientaliste additandole come responsabili degli incendi. Mentre è noto che in Amazzonia i piromani sono spesso agro-business privati che lucrano dalla deforestazione, collusi con il potere politico, capaci di azioni criminali e perfino di omicidi contro gli ambientalisti o i leader delle comunità native. La tragedia amazzone coincide per puro caso con la comica danese di Donald Trump, che ha cancellato la visita a Copenaghen per ripicca, visto che non gli vogliono vendere la Groenlandia. Questa farsa tradisce però la visione privatistica del presidente americano, per il quale la terra è un grande gioco di Monopoli, compravendite e speculazioni. La Groenlandia non è devastata come l’Amazzonia ma si trova in un’altra zona del pianeta delicata e contesa. Subisce con forza l’impatto del cambiamento climatico (scioglimento dei ghiacciai).

È già concupita e accerchiata da Russia e Cina, tra le prime potenze a sfruttare economicamente lo scioglimento dei ghiacci con la navigazione commerciale in quelle aree: fonte di inquinamento e futuri disastri ambientali. Anche gli appetiti militari stanno crescendo a dismisura. Trump è solo l’ultimo ad accorgersene.
Chi ha gli occhi aperti su quel che sta accadendo al pianeta, avverte l’assurdità che le frontiere più fragili dell’ecosistema siano affidate alla proprietà privata o alla sovranità assoluta di governi nazionali. In un’epoca che oggi ci appare molto lontana, Stati Uniti e Unione sovietica seppero pensare “oltre” i sovranismi, per esempio con l’accordo internazionale contro la militarizzazione dello spazio (in piena guerra fredda).
Oggi l’idea di “commissariare” i diritti di sfruttamento dell’Amazzonia susciterebbe l’immediata accusa di neocolonialismo, un ritorno d’ingerenza dei vecchi paesi ricchi sull’emisfero Sud. I sovranismi sono nati anche in questo modo: in Cina e in India molto prima che in Occidente apparissero Trump, Johnson, Salvini. Quando Barack Obama riuscì nel “miracolo” di convincere Xi Jinping a firmare gli accordi di Parigi sulla lotta al cambiamento climatico, lo fece pagando un prezzo considerevole. Da quegli accordi manca un meccanismo stringente di controlli esterni, sovranazionali, sul rispetto degli obiettivi di riduzione delle emissioni carboniche nei singoli paesi. Mancano inoltre le sanzioni qualora quegli obiettivi non vengano raggiunti. Questo fu l’unico modo per acquisire l’adesione di Cina e India. Che altrimenti avrebbero denunciato come un’ingerenza neocoloniale la pretesa di verificare e sanzionare i loro risultati nella lotta all’inquinamento. Non importa il fatto che i controlli sarebbero stati affidati ad esperti scientifici indipendenti, sotto l’egida dell’Onu dove la Cina siede nel Consiglio di sicurezza.
Un comportamento più aperto c’è stato da parte dei paesi più poveri della terra, che sono anche i più esposti ai danni del cambiamento climatico (alluvioni e tsunami, esodi di rifugiati da calamità ambientali). Quelle nazioni hanno bisogno di sostanziali aiuti economici per investire in uno sviluppo sostenibile. In cambio dei trasferimenti di risorse dal Nord al Sud è possibile ottenere una gestione e una vigilanza sovranazionale. Alla prossima crisi economica in cui il Brasile dovesse bussare alla porta del Fondo monetario, sarebbe più che legittimo chiedere che accetti una supervisione internazionale sull’Amazzonia.
Ma sto immaginando una rivoluzione culturale, che forse spetta alla “generazione Greta”.””

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