Spegnete i giorni del fuoco
Intervista a Sebastian Salgado di Anais Ginori (Robinson di Repubblica 14.9.19)
“”Seduto davanti a una scrivania coperta, Sebastião Salgado scarta le immagini a una a una. « Questa no, questa no...». Il colpo d’occhio dura pochi secondi. Ogni tanto si ferma su una foto in bianco e nero per misurarla con la squadra. «Guarda le mani», dice a Françoise, la photo editor complice di tante avventure. « Stiamo facendo una seduta di sciamanismo » , scherza con il suo francese musicale, non ha perso l’inconfondibile accento brasiliano nonostante sia arrivato a Parigi nel lontano 1969. L’agenzia Amazonas Images è affacciata sul canal Saint-Martin, dove gli studenti vengono a prendere il sole settembrino. Salgado ci porta in un’altra stanza dove sono appesi ritratti di indiani dell’Amazzonia, vuole mostrarci alcuni scatti del suo nuovo, monumentale progetto, « ho ancora migliaia di fotografie da visionare » , anni passati a viaggiare nella più grande foresta tropicale del mondo e a cui il fotografo brasiliano di In cammino e Genesis dedicherà presto una mostra.
«Voglio fare qualcosa di innovativo, con delle proiezioni, dei concerti. È un’idea di Lélia», racconta citando l’inseparabile moglie con cui ha condiviso tutto da oltre cinquant’anni, sin da quando era studente di economia. Gli alberi maestosi si specchiano nei fiumi, le forme incredibili delle nuvole, «questa sembra un drago», la luce che taglia l’orizzonte, «è un cielo che non esiste da nessuna altra parte».
L’Amazzonia brucia e il presidente brasiliano Jair Bolsonaro è complice del disastro ecologico, resta indifferente agli appelli del mondo. « Aspetta, facciamo un passo indietro » , commenta Salgado, settantacinque anni, con la sua aria da vecchio saggio, un cespuglio irsuto di sopracciglia bianche sopra agli occhi azzurri. Si alza per cercare una cartina dell’Amazzonia. Indica le riserve indiane protette, i parchi nazionali tutelati dal ministero dell’Ambiente. «Queste zone per fortuna sono ancora relativamente preservate e rappresentano oltre metà della foresta». È sui territori statali, le terras devolutas, prosegue Salgado, che si concentra la devastazione.
Che cosa ha pensato vedendo le immagini degli incendi?
«Sapevamo che sarebbe successo. La foresta tropicale non brucia facilmente perché è rigogliosa, il legno è fresco, bisogna prima abbatterlo e aspettare che secchi. E quindi erano mesi che si preparavano gli incendi, tutti ci eravamo accorti di un’accelerazione nel disboscamento che purtroppo non è nuovo. Negli ultimi cinquant’anni è stato distrutto quasi il venti per cento dell’Amazzonia.
Bolsonaro non fa altro che continuare in modo ancora più brutale. Dall’epoca della dittatura militare è stata promossa una politica di colonizzazione delle terras devolutas, abbattendo foreste, costruendo immense fattorie. E anche dopo l’arrivo della democrazia si è continuato. Ci sono stati governi più complici, altri che hanno solo fatto finta di niente.
Ora Bolsonaro è più pericoloso perché vuole destabilizzare anche le zone finora preservate».
Chi sono i colpevoli?
«Bolsonaro ha detto in campagna elettorale che bisognava allargare la superficie abitata e coltivata dell’Amazzonia. Non appena è arrivato al potere ha tolto tutti i tecnici del ministro dell’Ambiente sostituiti da militari di sua fiducia. Ha eliminato la legge che puniva i responsabili di deforestazione. E poi ha tagliato i fondi al Funai, l’organismo statale che si occupa delle riserve degli indiani che rappresentano territori grandi due volte e mezzo la Francia. Non c’è niente di casuale, tutto è stato pianificato. Anche il momento in cui scatenare gli incendi. È stato fissato il giorno del fuoco».
Sta dicendo che c’è stato un coordinamento?
«Certo, tutte le fattorie dell’Amazzonia sono collegate via radio, con la regia di gruppi dell’agroalimentare di destra o estrema destra che hanno votato per Bolsonaro. L’altra forza destabilizzante per l’Amazzonia sono le sette evangeliche che vogliono convertire gli indiani, pensano di catechizzare queste anime. Bolsonaro e sua moglie fanno parte di una setta, rappresentano anche questo elettorato».
Anche la sinistra, il Partito dei lavoratori, ha delle colpe?
«Il Brasile è l’unico Paese al mondo in cui la classe operaia è arrivata al potere senza la lotta armata. La vittoria di Lula nel 2003 è stato un grande momento.
Lula ha fatto tante cose per dare più tutele agli indiani in Amazzonia anche se non ha saputo cambiare davvero il modello produttivista dell’industria agro-alimentare. Né lui, né Dilma Rousseff».
Lula adesso è in carcere, fatica a esserci una vera opposizione a Bolsonaro.
«All’epoca ho sostenuto Lula come tante altre persone di sinistra ma oggi sono duro con lui perché ha compiuto tremendi errori. Il più grave è essersi intestardito a essere il candidato del Partito dei lavoratori l’anno scorso, nonostante fosse ovvio che sarebbe finito in galera. Il Pt avrebbe potuto vincere le elezioni. Lula non lo ha permesso, ha tenuto il partito in ostaggio. E quando finalmente c’è stato il via libera alla candidatura di Fernando Haddad, che per me è fantastico, era già troppo tardi, non c’era più tempo di fare campagna elettorale. In un certo senso, Lula ha permesso che Bolsonaro arrivasse al potere. È una colpa gravissima». Come si può fermare la devastazione dell’Amazzonia? «Attraverso la mobilitazione internazionale Bolsonaro rischia di perdere l’appoggio di una parte della grande industria agroalimentare che ora teme conseguenze sulle esportazioni. I governi europei devono fermare l’accordo di libero scambio con il Brasile e gli altri paesi dell’America latina, quel Mercosur che la Francia ha già detto di non voler più sottoscrivere. Sapevamo che sarebbe successo Gli alberi tropicali non bruciano facilmente perché il legno è fresco, bisogna prima abbatterlo e aspettare che secchi. E quindi erano mesi che si preparavano gli incendi. C’è la regia di gruppi dell’agroalimentare di estrema destra che hanno votato per Bolsonaro. L’altra forza destabilizzante sono le sette evangeliche che vogliono convertire gli indiani.””