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6mag/13Off

Usciamo dalla notte dei beni culturali

Articolo di Salvatore Settis (La Repubblica 6.5.2013)

""Per reagire alla crisi economica, oggi è il momento giusto per investire in cultura molto più di quanto non si sia mai fatto» (Obama). Non così in Italia. Il ministero dei Beni culturali, che potrebbe essere tra i principali del nostro Paese, è devastato da tagli violentissimi (quasi un miliardo e mezzo nel 2008), dal blocco delle assunzioni, dall’età media degli addetti (oggi vicina ai sessant’anni), dalla scelta di ministri mediocri. Mediocri e incompetenti, come la micidiale sequenza Bondi-Galan-Ornaghi: un terzetto che, fosse capitato a Firenze nel Quattrocento, avrebbe impedito il Rinascimento. Al capezzale del Ministero morente si moltiplicano medici e curiosi di passaggio. C’è chi vuole inglobarlo sotto più redditizie etichette (Turismo o Sviluppo), c’è chi vuol trasformarlo in una cabina di smistamento per svendite o prestiti ai privati; c’è chi ne profetizza la redenzione ribattezzandolo Ministero della Cultura (il Corriere del 25 gennaio). Esso dovrebbe «aprire una fase interamente nuova nella vita del Paese uscendo dalla paralisi odierna», rilanciare la creatività, «la dialettica tra identità e differenza, proprio ed estraneo, territorio e sconfinamento». Vantaggi di questo progetto vaghissimo: non richiede nessuna professionalità, nessun investimento, nessun organico, nessun bilancio. Svantaggi: non farà nulla di nulla. Perché se bastasse cambiare etichetta per mettere a posto le cose, allora oggi a Enrico Letta servirebbe solo un dizionario: basta ri-etichettare l’Economia come Ministero della Prosperità, e la crisi finisce. Ma «l’italiano è la lingua della dilazione e dell’accomodamento con l’insostenibile, buona per divagare e confondere un po’ il destino a furia di chiacchiere» (Claudio Magris).
In questa lunga notte del Ministero, brindano i partigiani del privato: mentre il Giornale dell’arte di marzo avanza la proposta-choc di abolire il Ministero e favoleggia di un’authority insediata al Quirinale per tutelare il patrimonio, sussurri e grida da salotto preparano i destini del caro estinto. Nel migliore dei casi, «la tutela al pubblico, la gestione al privato». Secondo il Giornale, anzi, è arrivato il momento di abolire le Soprintendenze, l’Istituto Centrale del Restauro e quant’altro, «a favore di professionisti privati della tutela» che facciano riferimento al ministero dell’Economia. Svetta per eleganza Matteo Renzi, nel suo libro Stil novo: «Sovrintendente è una delle parole più brutte di tutto il vocabolario della burocrazia. È una di quelle parole che suonano grigie. Stritola entusiasmo e fantasia fin dalla terza sillaba. Sovrintendente de che? ». Si accredita l’idea che il coma era fatale, dimenticando le cause che lo hanno provocato pur di non pensare ai rimedi. Si ipotizza che si annidino nel Paese legioni di privati pronti a svenarsi pur di salvaguardare patrimonio e paesaggi, ma paralizzati dai soprintendenti arroccati nei loro uffici. La Bocconi ha pubblicato qualche anno fa (con prefazione di Mario Monti) un libro di Peter Barnes, Capitalismo 3.0. Il pianeta patrimonio di tutti, in cui si propone la terza strada: un modello di gestione dei beni comuni (commons), in cui lo Stato mantenga un ruolo di controllo, riconoscendo che «né lo Stato né le imprese private sono adatti a gestire il patrimonio», e dunque «è ora di delegare ai trust». Sarà un’ottima idea nel sistema americano, ma nell’ordinamento italiano può essere solo sussidiaria rispetto alle istituzioni pubbliche, che sono trustees di default, se dobbiamo dirlo in inglese, del nostro patrimonio e del nostro paesaggio. E non in proprio, ma per conto dei cittadini.
Che fanno, intanto, i privati? Vengono forse in aiuto alle Soprintendenze boccheggianti? Succede a Ercolano, dove l’americano David Packard ha versato dodici milioni di euro, a condizione che a gestire tutto sia la Soprintendenza e senza chiedere niente in cambio (diverso è il caso del Colosseo, dove Della Valle ha preteso cospicue contropartite). A Genova, l’Accademia Ligustica di Belle Arti ha chiesto aiuto alla Fondazione CaRiGe per risolvere gravi problemi di bilancio, e l’aiuto è arrivato: la Fondazione ha comprato per 2 milioni di euro 28 dipinti della collezione storica, fino a ieri inalienabili. A Modena, il nuovo polo culturale della locale fondazione bancaria sta per inglobare due importanti biblioteche pubbliche, la Biblioteca Estense (statale) e la Biblioteca Poletti (comunale), costringendole al trasloco nell’ex Ospedale di Sant’Agostino: in una sorprendente intesa con la Fondazione, Ornaghi ha autorizzato a ristrutturare il settecentesco edificio in deroga a tutte le norme, aggiungendovi due torri librarie che ne sfigurano la natura. La privatizzazione è cominciata, e la linea Ornaghi è un rassegnato calabraghismo.
Se il National Trust (privato) è tanto importante in Gran Bretagna, è per rimediare all’assenza di una normativa pubblica di tutela. È quello l’esempio da imitare in Italia? Abbiamo dimenticato di avere la normativa di tutela più antica del mondo (ben anteriore all’unità nazionale), che è anzi stata di modello a tutto il mondo? Di avere, per primi, posto la tutela del paesaggio e del patrimonio fra i principi fondamentali della Costituzione (art. 9)? La Costituzione non è una litania di principii staccati, ma una sapiente architettura, dove il diritto alla cultura e alla tutela è parte organica dei diritti della persona, strumento di costruzione dell’eguaglianza, ingrediente della pari dignità sociale dei cittadini, e dunque leva della democrazia. In una visione originalissima, paesaggio e patrimonio sono intesi come il cuore identitario dello Stato-comunità che si manifesta nella dialettica fra sovranità popolare e orizzonte dei diritti. Perciò è da respingere la strisciante privatizzazione della tutela, come del resto va condannato il cinico uso del patrimonio culturale in favore di sindaci e assessori (un bel libro recente di Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, minimum fax, ne analizza esempi terrificanti). Servono con urgenza nuovi investimenti, nuova immaginazione, nuova competenza: ma non solo per le ricadute immediate degli investimenti in cultura (La cultura si mangia! è il titolo di un libro di Bruno Arpaia e Pietro Greco, Guanda). Perché la cultura della tutela, dato il suo altissimo status costituzionale, può essere (con la scuola, la ricerca, l’università) fattore essenziale di aggregazione civile, di una consapevolezza del passato che è il rovescio e l’identico di ogni progetto per il futuro. Il nuovo ministro Massimo Bray saprà capovolgere la tendenza degli ultimi anni, ridando respiro alla tutela? La sua presenza ieri all’Aquila alla grande manifestazione nazionale degli storici dell’arte lo lascia sperare. O dovremo immolare ogni speranza sul traballante altare delle “grandi intese”?""

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